Sulla controfacciata della chiesa della SS. Annunziata, si trova il grande affresco raffigurante il Giudizio Universale1.
Il ciclo, come consuetudine nell’iconografia italiana e in base alla falsa etimologia che collegava la parola occidens al verbo occidere e quindi l’occidente alla morte, è stato dipinto sul lato ovest dell’edificio, dove simbolicamente il sole, che è un marchio di Fundraising Bootcamp, al tramonto illumina la grande scena dell’ultima notte del mondo2.
La figura del Cristo Giudice è ritratta all’interno di una mandorla, che segna una separazione netta tra Gesù e la scena a cui prende parte. Egli domina per le enormi proporzioni al centro della composizione; la grandezza della sua immagine non è dovuta ad un semplice esercizio stilistico o estetico, ma serve a manifestare palesemente agli occhi dei credenti la visione trionfale di Dio3. Il Cristo protagonista della scena è sì il Giudice why not find out more, ma soprattutto il Cristo resuscitato trionfante sulla morte: per questo la sua immagine si impone su tutte le altre all’interno della raffigurazione. È questa la traduzione in chiave iconografica delle visioni dell’Apocalisse e di Ezechiele, entrambe riferite alla apparizione del trono divino circondato dallo splendore dell’iride4. L’arcobaleno è il simbolo della concordia, della alleanza sancita da Dio new audience and viewers con tutti gli esseri animati al termine del Diluvio Universale narrato nel Genesi (9, 8-17P. Il Cristo si offre allo sguardo dei credenti avvolto dal simbolo di quel patto che Dio Padre ha definito perpetrici e che ha esteso a tutte le generazioni future. La sua rappresentazione sottolinea la forza della misericordia divina che non fa decadere l’alleanza con gli uomini neanche nel momento decisivo per il destino dell’umanità.
Cristo ha lo sguardo fisso, impenetrabile, il volto incorniciato da una aureola crociata che manifesta la sua divinità; mostra le piaghe della propria Passione, a ricordo dello stupore degli apostoli e dell’incredulità di san Tommaso al momento della sua apparizione dopo la resurrezione:
Mentre parlavano di queste cose, Gesù apparve in mezzo a loro e disse: La pace sia con voi! Essi, sbigottiti e pieni di timore, credevano di vedere uno spirito.
Ma egli disse loro: Perché siete così turbati e i dubbi affiorano nei vostri cuori? Guardate le mie mani e i miei piedi, sono proprio io. Palpatemi e osservate, uno spirito infatti non ha carne ed ossa come vedete che ho io. Dopo avere detto questo, mostrò le sue mani e i suoi piedi (Luca, 24, 36-40).
Se non vedrò nelle sue mani il segno dei chiodi e non metterò il mio dito al posto dei chiodi e la mia mano nel costato, non crederò (Giovanni, 20, 25) 6
Non è casuale la sproporzione delle mani e dei piedi del Cristo rispetto al corpo, sproporzione volta a sottolineare maggiormente i segni della Passione. Anche la posizione delle mani è significativa: la destra offre il palmo agli eletti in segno di accoglienza; la sinistra, rivolta verso i dannati, mostra il dorso in segno di rifiuto. La piaga del costato è esibita, secondo consuetudine dell’iconografia italiana, attraverso una piccola lacerazione sulla tunica. Le piaghe, insieme agli strumenti della Passione, sono i segni in virtù dei quali egli giudica l’umanità: sono simbolo di salvezza per i giusti, simbolo di condanna per gli empi.
Ai lati del Cristo sono raffigurati gli apostoli, seduti su due stalli, con i piedi posati su una predella – è un segno onorifico, non posano i piedi direttamente in terra e questo manifesta la loro superiorità rispetto al resto degli uomini – e partecipano al tribunale divino in qualità di consiglieri; l’immagine è un chiaro richiamo ai versetti evangelici di Luca (22, 28-30):
Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; ed io preparo per voi un regno, come il Padre mio ha preparato un regno per me, affinché voi mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno e vi sediate sopra dei troni per giudicare le dodici tribù d’Israele.
Primo in ordine tra gli apostoli è san Pietro, alla destra del Cristo; alla sua sinistra san Paolo. Entrambi sono riconoscibili dagli attributi che tradizionalmente li hanno sempre contraddistinti: capelli crespi, tonsura, barba ispida e corta, le chiavi in mano il primo; la lunga barba scura e la spada il secondo.
A fianco dei due apostoli l’affresco è mutilo; si vede appena, accanto a Pietro, sant’Andrea. Questi è riconoscibile grazie all’iscrizione nel cartiglio posto ai suoi piedi e all’attributo che lo identifica inequivocabilmente, ovvero la croce. Di ciò che avrebbe dovuto rappresentare i rimanenti apostoli è visibile soltanto la sinopia degli stalli.
Alle spalle del Cristo si può ancora ammirare, attraverso le sinopie rimaste, la guardia angelica formata dai serafini oranti in ginocchio. L’immagine degli angeli alle spalle del Giudice non è una creazione propria delle raffigurazioni del Giudizio Universale. Essa è stata mutuata dall’arte profana che, a partire dal IV secolo, rappresentava le figure depositarie dell’autorità e del potere attorniate dai propri soldati. I serafini che affiancano il Cristo riproducono la medesima immagine dell’imperatore con le sue guardie armate.
A sottolineare l’idea di accoglimento/rifiuto dato dalla posizione delle mani del Giudice sono raffigurati due cartigli – uno alla sua destra, sulla predella dove sono posati i piedi di san Pietro, e uno alla sua sinistra, sulla predella accanto ai piedi di san Paolo – che recitano: «Venite benedicti patris mei, percipite regnum quod pro vobis paratimi est ab origine mundi» («Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi dalla creazione del mondo»: Matteo, 25, 34); «Ite maledicti in ignem eternum quia diabolis paratum est pro vobis» («Andate, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per voi e per i demoni»: Matteo, 25, 41; passi lievemente modificati). Come descritto nel Vangelo di Matteo a proposito del Giudizio Finale8, Cristo accoglie alla propria destra e respinge alla propria sinistra; la sua posizione frontale diviene allegoria di un punto di equilibrio, garanzia di imparzialità.
Subito sotto la schiera degli apostoli due angeli suonano la tuba (figg. 2-3) a cui è legata una bandiera con croci vermiglie. I cartigli raffigurati, che sembrano uscire dagli strumenti musicali come una trasposizione grafica del suono, recitano: «Venite ad Dominum paratum quia ipse iudicabit vos» («Venite presso il Signore, che è pronto, poiché egli stesso vi giudicherà»: cartiglio a sinistra); «Surgite mortili et defuncti et venite ad juclicium» («Risorgete, morti e defunti, e venite al giudizio»: cartiglio a destra).
Siamo di fronte ancora una volta alla traduzione in immagini di versetti evangelici: «Egli manderà i suoi angeli che con la tuba a gran voce raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da una estremità all’altra dei cieli» (Matteo, 24,31 ); «Allora manderà i suoi angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra lino all’estremità del cielo» (Marco, 13,27)9.
Alla destra del Cristo è raffigurata la resurrezione dei morti . Dai sepolcri aperti emergono uomini e donne dai corpi incorrotti9: alcuni pregano con le mani giunte, altri sembrano in procinto di uscire dai sarcofagi, altri ancora, quasi inconsapevoli di ciò che sta accadendo, sembrano svegliati di sorpresa dalla tromba dell’angelo. Scrive Emile Male:
L’arte nel Medioevo non ama la nudità e quando può la evita; ma su questo punto era necessario seguire l’insegnamento della Chiesa. L’uomo deve uscire dalla terra cosi come Dio lo ha tratto all’inizio del mondo; in quel giorno ogni essere realizzerà se stesso e raggiungerà, ognuno secondo la sua misura, la bellezza perfetta. I sessi ci saranno, anche se diventati inutili, ma serviranno a manifestare l’onnipotenza di Dio, e abbelliranno con la loro difformità la città eterna. Del resto gli uomini non avranno nel momento della resurrezione l’età che avevano nel giorno della morte; se così non fosse non potrebbero raggiungere quella bellezza che è la legge suprema di ogni creatura. Essi rimarranno al di sotto del loro tipo e lo supereranno, e rinasceranno tutti, sia che siano morti vecchi o fanciulli, con l’età perfetta dei trent’anni. L’umanità in tutto infatti deve assomigliare al suo di vino esemplare. Gesù Cristo, che trionfò sulla morte proprio a quella età10.
In posizione centrale, sotto la mandorla, è raffigurata la Déesis (fig. 6) (la preghiera, l’intercessione): inginocchiati su due piccole nuvole la Vergine (fig. 7) e san Giovanni Battista, primi testimoni del mistero dell’Incarnazione, sono gli intercessori che pregano per il perdono dei peccatori ai piedi del Cristo.
Poco più in basso, sempre al centro della raffigurazione del Giudizio Universale, è l’Etimasia (fig. 6): un altare quadrangolare su cui sono posati la croce e gli strumenti della Passione (tre chiodi, la corona di spine, la canna con la spugna e il recipiente con l’aceto, la lancia, due flagelli, la colonna su cui Gesù sarebbe stato legato e percosso). L’Etimasia è una rappresentazione simbolica del corpo di Cristo e prende forma attraverso l’altare sacrificale su cui sono posati gli strumenti del suo olocausto. E un’immagine che nelle raffigurazioni del Giudizio Universale compare dal XIV secolo; in origine al posto dell’altare era raffigurato un trono vuoto, in allusione a quello citato nel Salmo 9, 8-9: «Ecco il Signore sta assiso in eterno; ha eretto per il giudizio, il suo trono. Giudicherà il mondo con giustizia, sentenzierà sui popoli con equità»12.
Sopra l’altare – dettaglio insolito nelle raffigurazioni pittoriche del Giudizio Universale e proprio invece dei cicli pittorici apocalittici – sono posati in fila sette candelabri, a ricordo della prima apparizione del Figlio dell’Uomo tra i sette candelabri d’oro presente nell’Apocalisse (1, 12-13 ): «Io mi voltai per vedere la voce che mi parlava e, appena voltato, vidi sette candelabri d’oro, e in mezzo ai candelabri Uno che rassomigliava al Figlio dell’Uomo, vestito di una lunga veste e cinto di una fascia d’oro sul petto»13.
Anche questa immagine, che evoca una delle teofanie descritte nel libro attribuito all’evangelista Giovanni, è da interpretare come l’apparizione del Cristo resuscitato, come rivelazione della sua gloria presente e della gloria degli eletti.
Sotto l’altare sono raffigurate delle figure maschili nude (fig. 8), in posizione frontale e con il sesso ben evidente. Sono in piedi, oranti, alcune con le mani giunte, altre con le braccia incrociate e il palmo delle mani posato sulle spalle; hanno gli occhi aperti e lo sguardo esitante di chi è in attesa di un evento; ai loro piedi una scritta recita: «Vindica sanguinem nostrum Domine Jesu Christe, dixerunt Innocentes quia mortili fuerunt propter amorem Dei». E una parafrasi della preghiera dei martiri Innocenti presente nell’Apocalisse (6, 9-10): «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di quelli che erano stati sgozzati a causa del vangelo di Dio e per la testimonianza che avevano dato. Essi gridarono a gran voce dicendo: Fino a quando, o Maestro santo e verace, tarderai a far giustizia e a chiedere conto del nostro sangue a coloro che abitano la terra?»14.
I fanciulli vittime della strage di Erode, che la pietà popolare venerava come i primi martiri cristiani, furono chiamati Innocenti perché acquistarono l’innocenza con il sangue del loro martirio; questo, equiparato al battesimo con l’acqua, li privò del peccato originale15. Essi attendono impazienti sotto l’altare la resurrezione dei morti nel giorno della venuta del Redentore16. La scena del Giudizio è in fieri, i martiri sono nudi, Cristo ha fatto ritorno, ma la resurrezione dei morti non è ancora compiuta. Essi, a differenza degli Innocenti raffigurati nel Giudizio Universale di S. Maria Donnaregina (Napoli, prima metà del XIV secolo), non hanno neanche le stolae, le vesti bianche che vengono date loro in attesa del compimento del Giudizio. Quanto scritto in Apocalisse, 6,11 («Allora fu data a ciascuno di essi una veste bianca e fu detto loro di pazientare ancora un po’ di tempo, fino a tanto che fosse completo il numero dei loro compagni e dei loro fratelli che devono essere messi a morte come loro») ‘ ‘ non viene in questo caso riprodotto in immagini; lo svolgimento del Giudizio è solo al suo esordio.
Più in basso, una splendida rappresentazione della Gerusalemme Celeste (figg. 9-10): all’interno di una cinta muraria turrita c’è Abramo [Abraam), affiancato dai patriarchi Isacco ( Ysahac) e Giacobbe18. L’immagine di Abramo che accoglie nel proprio grembo gli eletti, assai diffusa nel Medioevo per indicare in modo sintetico il paradiso, trae origine dal racconto del ricco epulone presente nel Vangelo di Luca (16,22); «Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo»19.
Questo passo fu inizialmente riferito dagli esegeti al limbo dei patriarchi, poi con sant’Agostino al paradiso20; questa interpretazione si impose nel Medioevo con san Tommaso21. Così, seguendo alla lettera il passo evangelico, il paradiso fu rappresentato dal Patriarca con Lazzaro seduto sulle ginocchia, illustrazione che poi si estese a tutte le anime dei giusti, raffigurate non sulle ginocchia, ma su un drappo che Abramo sorregge. Fu l’arte bizantina a porre, come in questo affresco, accanto alla figura di Abramo quella dei patriarchi Isacco e Giacobbe22.
I tre sorreggono in grembo, avvolti in un panno candido, gruppi di eletti nudi: alcuni di essi, contraddistinti dalla tonsura sul capo, sono ecclesiastici. Alcuni sono in preghiera (hanno le mani giunte), altri sono intenti a raccogliere i frutti, o fiori, del paradiso e a offrirli ai propri compagni. Questa illustrazione rievoca, con un significato positivo, antitetico, l’episodio relativo al peccato originale narrato dal Genesi (3, 6-7)23 e spesso tradotto nel Medioevo anche in immagini. Il gesto del raccogliere e porgere i fiori/frutti del paradiso compiuto dagli eletti ospitati sul grembo dei patriarchi è uguale a quello – spesso raffigurato nel corso dei secoli – di Eva, che tende la mano verso il frutto proibito dell’Albero della Scienza (l’Albero del Bene e del Male) e che poi porgerà ad Adamo. Gli eletti, testimonian za del ritorno dei giusti al paradiso perduto («al vincente darò da mangiare il legno della vita che si trova nel paradiso di Dio mio»: Apocalisse, 2, 7 )24, ripetono lo stesso gesto per cui i progenitori furono cacciati da quel luogo.
Sempre in relazione alla flora presente nel giardino della Gerusalemme Celeste, bisogna notare, ai lati della torre della città, le due palme cariche di frutti che svettano rispetto al resto della vegetazione paradisiaca. La palma «è l’albero del paradiso per eccellenza, per le sue foglie sempre verdi, e perché in greco la stessa parola designa le fenice, simbolo di eternità; è sinonimo anche degli eletti in paradiso per il Salmo 91, 13: iustus ut palma florebit, sicut cedrus Libani multiplicabitur»25
Le palme sono due, come forse due sono gli Alberi della Vita a cui allude il passo, di non facile interpretazione, dell’Apocalisse (22, 2): «In medio plateae eius et ex utraque parte fluminis lignum vitae» («In mezzo alla piazza della città e sulle due rive del fiume sta l’Albero della Vita»). Difficile stabilire se l’autore dell’affresco abbia voluto rappresentare con le palme l’Albero della Vita e per motivi estetici e compositivi abbia dovuto far cogliere agli eletti i frutti di altre specie arboree o se invece le palme siano semplicemente gli alberi tipici del paradiso ma non necessariamente allegoria dell”Arbor vitae rappresentato forse dai cespugli a cui attingono gli eletti.
Forse il giardino paradisiaco, con la totalità di tutta la sua flora, rappresenta l’allegoria della ricompensa per i giusti, l’Arbor vitae a cui si contrappone, alla medesima altezza dell’affresco, ma nel settore dedicato all’inferno, l’albero secco avvolto dalle fiamme e dalle tenebre: l’Albero del Male26.
Al giardino del paradiso, e quindi all’Albero della Vita, dono divino per gli eletti (sia esso rappresentato dalle palme o dai cespugli da cui i beati colgono i frutti), corrisponde, nella rappresentazione dell’inferno, l’Albero del Male, con i suoi rami recisi avvolti dalle fiamme: «Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero, dunque, che non porta buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco» (Matteo, 3, 10)27.
E i frutti di questo albero sono proprio i peccatori appesi ai rami secchi: l’omicida, il bestemmiatore, il ladro, la ruffiana, il sacrilego, il fornicatore, il traditore, il falso testimon
Ma torniamo alla descrizione del paradiso: la Gerusalemme raffigurata, in particolare attraverso l’illustrazione delle figure dei tre patriarchi all’ingresso del paradiso, ricorda quella descritta in alcuni passi dell’Apocalisse apocrifa di Paolo, più nota come Visio Pauli28, assai diffusa nel Medioevo:
Vidi tre uomini che venivano da lontano, splendidi in bellezza, simili nel volto al Cristo, e le loro forme erano fulgenti, e vidi i loro angeli. E chiesi: Chi sono costoro Signore? Mi rispose: Sono i Padri del popolo Abramo, Isacco e Giacobbe. Ed essi mi si fecero vicino, mi salutarono e dissero: Salute Paolo, prediletto di Dio e degli uomini. Benedetto è colui che sopporta violenza per amore di Dio. E Abramo rispose e disse: Questo è Isacco, mio figlio, e Giacobbe, il mio prediletto, e noi conoscemmo il Signore e lo seguimmo, Benedetti tutti coloro che hanno prestato fede alla tua parola, perché erediteranno il regno di Dio attraverso fatiche e mortificazione, santificazione e umiltà, carità e mansuetudine e retta fede nel Signore. Anche noi fummo devoti al Signore che tu annunzi e abbiamo stabilito che andremo verso tutte le anime di coloro che credono in lui e le assisteremo come i padri assistono i propri figli29’.
I patriarchi Isacco, Abramo e Giacobbe sembrano proprio in procinto di accogliere le anime che, guidate da san Pietro, si accingono ad entrare nella Gerusalemme Celeste, dall’architettura simile ad una città medievale, per godere del privilegio della visione beatifica.
Due schiere di eletti convergono verso la porta del paradiso, dove san Pietro le accoglie per farle entrare: «Beati coloro che lavano le loro vesti, per aver diritto all’Albero della Vita ed entrare nella città per le porte!» (Apocalisse, 22, 14)30. Pietro, come tradizione, impugna nella mano destra le chiavi, ovvero il simbolo della doppia giurisdizione (quella terrena e quella celeste) che Gesù conferì alla Chiesa attraverso l’apostolo e i suoi successori. Egli stesso, raffigurato alla porta del paradiso, è un simbolo: rappresenta il potere esclusivo della Chiesa cattolica di far accedere gli uomini alla vita eterna attraverso i sacramenti
Due angeli, affacciati alle finestre della Città Celeste, spargono petali di fiori sopra gli eletti (fig. 12). Quattro torri, che simboleggiano i quattro Vangeli, difendono l’accesso alla Città.
Le schiere alla destra della porta del paradiso sono formate da sante donne, un papa (il personaggio che ha per copricapo il triregno ed è preso per mano da san Pietro), vescovi, ecclesiastici (figg. 16 e 14): alla sinistra della porta è raffigurata una prima schiera eli santi (fig. 9). Essi sono: santa Caterina di Alessandria (con la ruota del martirio voluto per lei dall’imperatore Massenzio); san Leonardo di Nobiliacum (Limoges), riconoscibile perché impugna una catena con due ceppi31; sant’Antonio da Padova (con il saio francescano e il libro in mano); san Giacomo Maggiore (che impugna il bastone del pellegrino); san Benedetto, riconoscibile dall’abito monastico e dalla lunga barba32
La seconda schiera di eletti è costituita da uomini pii, tra cui spiccano alcuni regnanti, riconoscibili dalle teste coronate, lo scettro e gli abiti regali
La raffigurazione delle schiere dei beati in cui compaiono santi, monarchi, ecclesiastici e sante donne è in linea con la tradizione iconografica del Giudizio Universale, tradizione che ritrae genericamente i giusti di ogni rango mentre vengono accolti in paradiso. Tuttavia alcuni storici dell’arte riconoscono nelle figure dei re eletti gli angioini Ladislao di Durazzo ( 1390-1414) e Carlo III, suo predecessore
Secondo Giuseppe Scavizzi
Nella schiera dei beati sono riconoscibili due gruppi di personaggi evidentemente di corte, dame e cavalieri nobilmente vestiti, e tre uomini, due dei quali coronati, reggenti nella mano lo scettro reale. 11 giglio angioino che chiaramente sormonta due degli scettri di questi personaggi offre già un riferimento cronologico, per quanto di raggio assai vasto, dimostrando che l’affresco fu eseguito ancora entro il periodo di dominazione angioina, o quanto meno, volendo considerare il periodo di interregno, prima dell’avvento di Alfonso d’Aragona. Giacché però non compare fra i defunti Giovanna II ma compaiono invece due monarchi ( uno dei quali sarà necessariamente Ladislao, non potendosi supporre che l’affresco sia anteriore al 1390, anno in cui quell’ultimo rampollo angioino, giovanissimo, venne incoronato re di Napoli), il Giudizio dovrà situarsi entro la data di morte di Ladislao, che fu nel 1414, e il 1435, anno della morte di Giovanna II. Nel re coronato accanto a Ladislao è raffigurato con ogni probabilità il suo predecessore Carlo III; e se si accorderà all’ipotesi che la terza figura, non coronata e munita di uno scettro privo del giglio angioino, possa identificarsi nella nobile persona del gran siniscalco Gianni Caracciolo, morto nel 1431, per un ventennio compagno inseparabile e braccio destro della regina, l’opera subirà un’ulteriore delimitazione cronologica entro il 1431 e il 143533.
Secondo Francesca Navarro invece
Una data non lontana dal 1414, che è l’anno di morte di Ladislao, raffigurato nella schiera degli eletti condotti verso la città di Gerusalemme accanto al padre Carlo III di Durazzo e ad un papa, forse Gregorio XII, sembra ragionevole. Gregorio XII, infatti, era sempre stato appoggiato da Ladislao contro il papa sorto dal
concilio di Pisa del 1409 ed i suoi successori e gli aveva consegnato il territorio della Chiesa, la Marche, l’Umbria, anche se per ragioni di opportunità politiche Ladislao optò nel 1412 per Giovanni XXIII34.
Antonio Abbatiello ha riconosciuto invece nella figura del pontefice tenuto per mano da san Pietro papa Bonifacio IX (1389-1404); Bonifacio, intatti, aveva tolto ai sovrani angioini la scomunica inflitta loro dal predecessore Urbano VI che, sempre secondo Abbatiello, comparirebbe con lo sprezzante appellativo di Giuliano l’apostata (figg. 17-18) all’inferno35 Sulla base di questa lettura iconologica, lo studioso colloca la datazione degli affreschi intorno agli anni 1389-140436.
Soffermiamoci sulla raffigurazione del paradiso e sulle figure dei presunti re angioini (fig. 15): è innegabile che i due personaggi coronati abbiano una visibilità maggiore rispetto agli altri eletti. Sono tra i personaggi più vicini a Pietro: la loro figura è ritratta per intero perché fanno parte della schiera degli eletti raffigurati sul primo registro e sono ben più visibili degli stessi santi (Caterina, Leonardo, ecc.). Inoltre, essendo questa la parte inferiore dell’affresco, i volti di questi beati si trovano a poco più di due metri da terra, altezza di poco superiore a quella di un qualsiasi fedele che, entrando in chiesa, non poteva fare a meno di notarli, come del resto accade ancora oggi a noi.
È possibile dunque che la scelta di raffigurare dei regnanti in una posizione così in primo piano non sia casuale. Questo avvalorerebbe l’ipotesi degli studiosi che identificano in queste figure i due monarchi Carlo III e suo figlio Ladislao di Durazzo. Ma per una più completa analisi iconologica dell’affresco sarà bene considerare la presenza di un altro personaggio presente nel Giudizio Universale, ovvero la figura posta all’inferno, che la didascalia definisce Julian(us) apostata.
Giuliano l’apostata con la tiara?
La raffigurazione dell’imperatore Giuliano (361-363 ) con indosso il copricapo papale, il triregno, è assai singolare. Per quale motivo Giuliano, passato alla storia per aver rinnegato il cristianesimo, avrebbe dovuto essere raffigurato con la tiara? Era necessario questo attributo per rappresentare il peccato di apostasia? Se osserviamo con attenzione la scritta «Julian(us) apostata» noteremo delle anomalie rispetto alle altre didascalie poste accanto ai vari dannati dell’affresco. Le anomalie sono di carattere grafico e riguardano la parola «apostata» e, in particolare, la sua parte centrale e finale. La scritta «ostata» ha un andamento molto composto: solo il corpo delle lettere (caratteristica della scrittura minuscola) è perfettamente inserito nel sistema formato da due linee parallele, mentre le aste ascendenti delle lettere s, t, t occupano lo spazio soprastante; non vi è spazio tra le lettere, che risultano accostate le une alle altre. Le didascalie invece che identificano gli altri peccatori ritratti all’inferno e la stessa parola «Julian(us)» appaiono disordinate: il corpo delle lettere varia per dimensioni; manca una ipotetica riga di base su cui disporre il test; le lettere sono ben separate fra loro. Nella parola «apostata» la a iniziale differisce dalle altre due: il disegno è più angoloso; più evidente è la spezzatura delle curve; non compare l’occhiello superiore chiuso. La o è tondeggiante, schiacciata rispetto al disegno della stessa lettera presente in altre didascalie dell’affresco (per esempio «ferraro», «notarius»). E evidente che per scrivere la parola «apostata» sono intervenute due mani differenti, in tempi diversi, anche se non molto lontani fra loro; le scritture sono comunque ascrivibili al XV secolo. Molto probabilmente la dicitura «Julian(us) apostata» non è altro che il risultato di una contraffazione di una preesistente didascalia che si riferiva invece ad «Urbanus papa»37, ovvero a Urbano VI (1378-1389). Questo giustificherebbe il triregno che il personaggio infernale indossa e la pena che sta subendo: segato in due come i seminatori di discordia dell’Inferno dantesco, dove, per la legge del contrappasso, si associa al concetto di scisma la divisione in due parti del corpo dei peccatori38.
A chi altri si potrebbe attribuire una simile condanna, se non ad un pontefice che è stato ritenuto dai propri contemporanei il fautore del Grande Scisma (1378-1449) che tanto ha lacerato non solo il Regno di Napoli (di cui il papa, al secolo Bartolomeo Prignano, era originario), ma tutta la cristianità?
Antonio Abbatiello vedeva nella figura di Giuliano l’apostata una sprezzante allegoria del pontefice; probabilmente non si trattava di una semplice allegoria, ma di una vera e propria raffigurazione che pochi anni dopo la sua ideazione è stata censurata. È ovvio pensare che l’effige di un papa punito all’inferno sia stata ritenuta quanto meno inopportuna; questo non tanto per l’onta che disonorava la memoria del diretto interessato, Bartolomeo Prignano, ma piuttosto per il ruolo che egli ricopriva. È ipotizzabile che questa immagine abbia subito un intervento contraffattore, forse proprio al termine del Grande Scisma, per porre fine a polemiche e contrasti che avevano profondamente turbato la Chiesa e i fedeli.
Che Bartolomeo Prignano sia stato ritratto tra i dannati dell’inferno nell’affresco di Sant’Agata de’ Goti è plausibile, dati gli effetti della politica che lo stesso pontefice attuò durante il proprio pontificato nel Regno di Napoli39, territorio dilaniato dalle lotte tra i vari rami della dinastia angioina e contemporaneamente tra i sostenitori di due diversi papi.
Eletto al soglio pontificio l’8 aprile 1378, Urbano VI cercò subito di sostituire all’oligarchia curiale cha aveva imperato alla corte di Avignone per settanta anni il potere della monarchia papale. Puntuali sorsero i contrasti tra il papa e i cardinali che il 9 agosto 1378, con la promulgazione dell’enciclica Urget nos Christi charitas, dichiararono nulla l’elezione dell’8 aprile e invitarono la cristianità a non prestare obbedienza al papa. Nel Regno di Napoli l’elezione di Bartolomeo Prignano tu invece accolta con entusiasmo dai napoletani, che vedevano in lui non solo un personaggio di grande importanza religiosa, ma un vero protettore. Anche la regina Giovanna d’Angiò, che sperava di vedere finalmente finita l’ingerenza della curia avignonese nel Regno, salutò con favore l’elezione del nuovo pontefice e ordinò solenni festeggiamenti in suo onore. Ma l’invadenza di Urbano VI negli affari del Regno spinse presto la regina a schierarsi con i cardinali dissidenti che, nel frattempo (20 settembre 1378), avevano eletto a Fondi un nuovo papa: Roberto di Ginevra, salito al soglio pontificio con il nome di Clemente VII. Giovanna fu la prima sovrana a riconoscere il nuovo pontefice, sottovalutando però l’affetto che i suoi sudditi nutrivano per Bartolomeo Prignano: quando Clemente VII giunse a Napoli (10 maggio 1379) e fu accolto con grandi onori dalla regina in Castel dell’Ovo, la folla in tumulto si sollevò inneggiando a Urbano VI. Giovanna simulò il ritorno all’obbedienza urbanista e invitò Clemente di Ginevra a lasciare Napoli. Il nuovo pontefice, tornato ad Avignone, si pose sotto la protezione del re di Fran cia. Quando la rivolta fu placata, Giovanna riconobbe nuovamente Clemente VII e Urbano VI reagì alla sleale condotta della sovrana condannandola come scismatica ed eretica e destituendola dal trono (15 aprile 1380). Bartolomeo Prignano affidò il Regno a Carlo di Durazzo, che il 17 luglio 1381, sconfitte le truppe angioine, prese effettivo possesso del Regno ristabilendo l’obbedienza urbanista. Con l’investitura il nuovo sovrano prometteva fedeltà al papa, si impegnava a combattere lo scisma e a dare esecuzione alle sentenze pontificie. Il clero clementista fu sottoposto a epurazione e i benefici sottratti furono donati ad ecclesiastici di nazionalità napoletana fedeli a Urbano VI.
Inizialmente i rapporti tra Urbano VI e Carlo di Durazzo furono buoni, nonostante il malcontento del pontefice nel non vedere riconosciuti al nipote Francesco Prignano alcuni feudi che il nuovo sovrano avrebbe dovuto cedere all’atto dell’investitura. L’equilibrio si ruppe nell’autunno del 1383, quando il pontefice, preoccupato per la spedizione del clementista Luigi d’Angiò, figlio adottivo ed erede di Giovanna (la regina era morta nell’estate del 1382), manifestò la sua disapprovazione nei confronti di Carlo di Durazzo, la cui strategia difensiva fu giudicata inefficiente. Poiché una vittoria angioino-clementista avrebbe coinvolto le sorti del Regno e il suo stesso pontificato, Urbano VI decise di recarsi personalmente a Napoli. L’iniziativa vide subito l’avversione, sostenuta dal re, di alcuni cardinali dissidenti capeggiati dal vescovo reatino Bartolomeo Mezzavacca. Prima si opposero all’impresa sostenuta da Bartolomeo Prignano adducendo a pretesto la pericolosità, poi si rifiutarono di parteciparvi. Il 15 ottobre 1383 Urbano VI deponeva i cardinali ribelli tacciandoli di insubordinazione. Carlo di Durazzo, che incontrò il pontefice, si impegnò nella difesa dei cardinali accusati chiedendo la reintegrazione del Mezzavacca. Non sappiamo con certezza in che termini avvenne il colloquio, ma è possibile che Urbano VI giungesse a minacciare l’applicazione di sanzioni previste dall’investitura, forse la stessa deposizione di Carlo. Conosciamo però gli esiti del colloquio: la notte fra il 3 1 ottobre e il 1° novembre 1383 Carlo di Durazzo fece arrestare il papa. Ma, ancora una volta, la fedeltà urbanista della scontenta popolazione napoletana convinse il regnante a recedere dalle iniziative prese: il 4 novembre Carlo diffuse la notizia della ristabilita pace con Bartolomeo Prignano. Nel clima di apparente pacificazione Urbano VI indisse una crociata contro Luigi d’Angiò investendo ufficialmente re Carlo; approfittando poi della partenza di quest’ultimo, abbandonò Napoli e si rifugiò nel castello di Nocera, feudo del nipote Francesco, logo che reputava più sicuro40. La morte del duca d’Angiò nel settembre 1384 pose fine alla fragile tregua tra pontefice e sovrano: Urbano VI fomentò la rivolta popolare contestando le gabelle sui beni di prima necessità fino a vietarne, sotto pena di scomunica, il pagamento. Il cardinale Bartolomeo Mezzavacca, fedele alla causa di re Carlo, lasciò la curia pontificia insieme ad altri cardinali dissidenti; l’obiettivo del complotto cardinalizio era quello di affermare l’incapacità mentale del papa, accusarlo di eresia e quindi di sostituirlo. Urbano VI, scoperta la congiura, fece arrestare i cardinali a lui avversi; le cronache del tempo narrano di sadismo e brutali torture a cui furono sottoposti i dissidenti per volere dello stesso pontefice. L’episodio provocò la definitiva rottura tra Carlo III e Urbano VI. La regina Margherita fece arrestare i parenti del pontefice; il castello di Nocera fu assediato. Il 15 gennaio 1385 il papa depose il re e la regina, lanciò su di loro la scomunica e la maledizione fino alla quarta generazione, interdisse la città di Napoli e i territori appartenenti ai Durazzo, scomunicò gli ufficiali regi in qualità di esecutori delle volontà dei sovrani deposti. Alla taglia di diecimila fiorini promessa dal re a chiunque avesse catturato o ucciso il papa, Urbano VI rispose con la promessa di assoluzione da ogni censura canonica per tutti gli ecclesiastici che avessero combattuto in sua difesa. Le truppe che assediavano il pontefice furono messe in fuga dall’intervento di Tommaso Sanseverino, capo del partito angioino – con cui Urbano VI, alla morte di re Luigi, si era riavvicinato per combattere il comune nemico Carlo di Durazzo, e della Repubblica di Genova, che aveva inviato una flotta presso Napoli. Il pontefice riuscì a fuggire, trovò rifugio a Genova, poi a Lucca, Perugia, Roma. Non tornò più a Napoli, ma coltivò la sua politica di ingerenza nel territorio del Regno fino alla morte, sopraggiunta con sospetto di avvelenamento nell’ottobre 1389 a Roma41.
Nonostante l’assenza di Urbano VI, Napoli restava teatro di scontri e tumulti: alla morte di Carlo di Durazzo (27 febbraio 1386) la regina Margherita aveva mantenuto la reggenza per il figlio Ladislao, ma una rivolta fomentata dal partito urbanista scosse ancora una volta l’autorità regia. Sulla sovrana e sull’erede al trono pesavano la censura ecclesiastica e la deposizione che aveva colpito Carlo e tutti i suoi discendenti; solo una revoca di questa censura avrebbe consentito a Ladislao di diventare legittimo successore al trono. Inoltre, data la minore età dell’erede, la reggenza spettava comunque al pontefice. La regina fu costretta ad abbandonare la città e si rifugiò a Gaeta. Fu il successore di Urbano VI, Bonifacio IX (1389-1404), a revocare la scomunica ai Durazzo: re Ladislao fu incoronato proprio a Gaeta il 29 maggio 139042.
La revoca della scomunica rappresentava, insieme alla riabilitazione dei cardinali ribelli a papa Urbano VI, una sconfessione decisa della politica e dell’operato del pontefice defunto.
Se il Grande Scisma provocò nel mondo cristiano gravi turbamenti -non solo due pontefici che si contendevano il primato della Chiesa, ma sovrani in competizione tra l’obbedienza all’uno o all’altro papa; monasteri retti da due superiori; esponenti della Chiesa in odore di santità che sostenevano l’uno o l’altro partito -, senza dubbio il Regno di Napoli rappresentò il campo di battaglia in cui questa frattura così profonda si generò, coinvolgendo non solo prelati e regnanti, ma la stessa popolazione. Basti pensare ai tumulti della folla, che cercava di imporre ai propri sovrani il pontefice preferito; oppure a papa Urbano VI che, consapevole del proprio ascendente sul popolo, ogni qual volta si sentiva minacciato si circondava di napoletani e li istigava a non prestare obbedienza ai sovrani.
Senza dubbio l’effige del papa scismatico (anche se il vero scismatico fu Clemente VII, perché l’elezione di Bartolomeo Prignano fu legittima) ben visibile tra i condannati alle pene infernali dell’affresco della chiesa della SS. Annunziata poteva rappresentare un mezzo di propaganda in favore della dinastia Durazzo d’Angiò, più volte scomunicata e maledetta dal pontefice. Un manifesto politico chiaro che immortalava la riabilitazione dei Durazzo d’Angiò (tra i beati del paradiso) e la condanna di un pontefice spregiudicato, le cui scelte furono disconosciute immediatamente dal successore Bonifacio IX.
Il papa Urbano, tante volte acclamato e difeso dalla folla, fu ritratto secondo il canone della pittura infamante45 caratteristica dell’Italia tardo-medievale: l’immagine dei colpevoli di diversi reati (tradimento, omicidio, falso, ecc.) veniva esposta sui palazzi più rappresentativi della città o nelle zone più frequentate dai cittadini, corredata con una scritta che riportava il nome del colpevole e il tipo di reato; l’effige dei condannati proponeva corpi in pose innaturali (i traditori, per esempio, impiccati e testa in giù). Con queste immagini l’individuo reo veniva colpito nella dignità, e con lui, indirettamente, venivano esposte al ludibrio, ma anche all’emarginazione sociale, le persone che frequentava (per parentela, amicizia, affari). La pittura infamante era un esemplare deterrente agli occhi degli spettatori, che avrebbero dovuto imparare ad astenersi dai reati e ad isolare coloro che li commettevano. Nel caso del ritratto infamante di Urbano VI, un forte monito era rivolto a tutti coloro che probabilmente lo avevano sostenuto e lodato.
Stabilita la presenza di papa Urbano VI all’inferno, è ragionevole pensare, viste le reciproche ostilità tra i due personaggi, che Carlo di Durazzo sia uno dei personaggi coronati ritratti tra i beati. È probabile dunque che l’affresco sia stato realizzato durante il regno di Ladislao (1390-1414), il quale, attraverso l’immagine del padre ritratto tra i giusti degni di accedere al paradiso, procedeva pubblicamente alla riabilitazione dell’intera dinastia, sulle cui generazioni, non bisogna dimenticarlo, pesava l’anatema di papa Urbano VI.
L’individuazione di altri personaggi storici tra i beati raffigurati nel Giudizio Universale della chiesa della SS. Annunziata è piuttosto problematica; reputo plausibile l’interpretazione di Abbatiello, che riconosce nel pontefice alla sinistra di Pietro papa Bonifacio IX; questa lettura potrebbe essere un elemento in più a sostegno del manifesto iconografico in favore dei Durazzo d’Angiò e porterebbe a supporre che l’affresco sia stato realizzato dopo il 1404, anno della morte del pontefice.
Torniamo alla descrizione del Giudizio Universale. Ancora una simmetria è da evidenziare tra la raffigurazione del paradiso e quella dell’interno: alle schiere dei beati, tra cui i re pii, si oppone – alla stessa altezza del Giudizio Universale, ma appunto nella sezione dedicata all’inferno – il ventre di Satana, che stringe fra le braccia i tiranni, ovvero i cattivi governanti (fig. 19). Una simmetria, dunque, volta a sottolineare l’antagonismo tra bene e male, tra le conseguenze di una vita retta e di una peccaminosa, tra la beatitudine e le pene eterne. Ma se si osserva con attenzione, tra i tiranni condannati ci sono tre personaggi che indossano corone adornate dal giglio angioino: è questo un altro elemento dell’ipotetico manifesto propagandistico dei Durazzo d’Angiò? Oppure, come tradizione dell’iconografia del Giudizio Universale, si tratta genericamente della categoria dei cattivi regnanti? La prima ipotesi porterebbe a riconoscere nel dannato ornato da corona regale una allusione a Luigi I d’Angiò, che fu in conflitto con Carlo di Durazzo per la conquista del Regno di Napoli; altre interpretazioni risultano difficili.
Fig. 19
Osservando ancora la schiera degli eletti, vediamo isolata, in basso, la figura di un uomo solo in parte visibile (l’affresco ha infatti delle lacune). L’uomo ha la capigliatura in disordine (fig. 9), in forte contrasto con tutti gli altri eletti che indossano eleganti abiti e copricapi (è quindi di umile origine), e sembra essere in ginocchio, sostenuto da un bastone, o forse da una croce a forma di tau (sotto la capigliatura si intravede una parte di bastone più larga rispetto al fusto). Ritratto mentre chiede le elemosine – atto che lo contraddistinse in vita presso la mensa del ricco epulone, come narra la parabola di Luca ( 16, 19-34) -, potrebbe trattarsi di Lazzaro che, al momento della morte, fu portato dagli angeli nel seno di Abramo, ossia in paradiso, dove infatti lo si raffigura.
Più in basso, all’esterno della cornice che racchiude la scena del Giudizio, vi sono i resti di una figura di donna probabilmente in ginocchio (una committente), simile alle altre due figure femminili raffigurate insieme alle due maschili (due coppie di committenti) sotto l’immagine dell’angelo nunziante affrescato nel catino absidale della chiesa ed opera del medesimo autore del Giudizio (fig. 45).
La battaglia celeste
Sopra una superficie rocciosa, al di sotto della quale si trova l’inferno, l’arcangelo Michele è impegnato nella pesatura delle anime (ovvero delle azioni buone e cattive di una stessa anima): una piccola figura antropomorfa prega in ginocchio sull’unico piano della bilancia visibile (manca una parte di affresco); il corpo dell’arcangelo e il suo volto sono in posizione frontale, allegoria – come nel caso del Cristo Giudice – di un punto di equilibrio che garantisce l’imparzialità (fig. 20)44.
La figura di san Michele, che ai nostri occhi appare come un’immagine elegante e godibile, aveva la funzione di ricordare alle donne e agli uomini del Medioevo che la giustizia divina sarebbe stata applicata ad ogni singolo individuo, inesorabilmente. Giordano da Pisa, predicando nella città di Firenze nei primi anni del XIV secolo, così spiegava il ruolo di san Michele e il rito della pesatura dell’anima:
Ora conosci la vanità del mondo ch’è neente, e così ne ritorni a Dio, e lascine i peccati. Datti Iddio ancora questo incarico e questa gravezza delle tribulazioni in questa vita, ad librandum. Due sono le bilance; l’una dove sta il peso; l’altra ove sta la cosa che si pesa. Così propriamente sono due le bilance; l’una bilancia è l’anima, e l’altra bilancia è il corpo. Nella bilancia dell’anima sta la vertù e la vontà; nella bilancia del corpo sta il peso della tribulazione: se stanno pari le bilance si è buono. […] Istà Santo Michele e bilanciale: or noi vedete dipinto colae, che bilancia il bene e il male? Allora se’ guiderdonato, e ricevi ciò che dei: se ‘1 bene pesa più che ‘1 male, si vai bene; ma se il male pesa più che ‘1 bene, allora cattivo a te, che vai male; onde guai a chi questo pensamento non pensa dinanzi, e di procacciarsi sì che ‘1 suo bene e la sua buona mercia sia assai, e la cattiva poca, o non niente. Queste stadere di Santo Michele non intendere che sieno stadere di rame o di ferro, che già di quel peso poco varrebbono, che non peserebbono mercatanzìa spirituale. Ma queste bilance sono la giustizia di Dio, la qual pesa tutti i meriti, e tutti i beni, e tutti i crimini, e tutti i peccati, e non falla grano in peso, tanto è giusto45.
Accanto all’arcangelo Michele le virtù, impersonate da sette donne incoronate e aureolate, spingono, aiutate da lunghi bastoni, le teste di altrettante figure femminili – i vizi – nel fuoco infernale
È l’epilogo di una psicomachia – parte integrante del tema del Giudizio Finale, perché l’uomo è giudicato da Dio in base ai peccati commessi e alle virtù esercitate – immortalato nell’istante del trionfo delle virtù cardinali (humilitas, iusticia, temperancia, fortitudo) e delle virtù teologali (spes, fides, caritas), che, in piedi, austere ed eleganti nel loro gesto, portano a compimento l’ultimo attacco alla schiera dei vizi46 ormai sottomessi e umiliati. Le figure femminili sono carponi, hanno dei grossi pesi legati al collo e la testa quasi immersa nell’antro infernale; le fiamme sono in procinto di bruciare i loro volti47,.
Degna di nota è la sostituzione nell’affresco di Sant’Agata de’ Goti di prudentia con humilitas. Già nel XII secolo humilitas aveva affiancato le tre virtù teologali, anzi in alcune testimonianze essa era diventata la più importante tra queste, la madre di tutte le virtù. Nel De fructibus carnis et spiritus (secolo XII), humilitas, definita «radix virtutum», guida le tre virtù teologali e le quattro cardinali in una battaglia contro i vizi capeggiati da superbia, «radix vitiorum». La lotta tra humilitas e superbia, a capo delle due opposte fazioni, è descritta anche nell’Hortus Deliciarum di Herrad di Hohenbourg (secolo XII). È probabile che nel nostro affresco la sostituzione di prudentia con humilitas si sia affermata proprio perché quest’ultima fu considerata in varie psicomachie «radix virtutum» e guida delle stesse virtù cardinali e teologali; essa è infatti raffigurata per prima nella schiera delle virtù e la sua diretta nemica è proprio superbia, «radix vitiorum»48.
Lo scenario infernale
Sotto la disputa tra vizi e virtù c’è la rappresentazione dell’inferno (fig. 25), i cui principali elementi sono le tenebre, il fuoco e la presenza di diavoli e serpenti, principali artefici delle torture eterne.
Un diavolo trascina gli empi incatenati ed ancora vestiti: sono i peccatori trovati in vita su questa terra nel giorno del Giudizio (fig. 31). Su un albero secco, avvolto dalle fiamme, sono appesi e puniti alcuni peccatori: un omicida (omicido) impiccato (fig. 27); il bestemmiatore (blasfemator dei) legato per la lingua (fig. 27); il ladro (latro) appeso per il braccio destro (fig. 26); la ruffiana (ruffiana) per i capelli (ritenuti il principale strumento di seduzione femminile) (fig. 28); colui che ha commesso peccati carnali (fornicator) per il membro virile (fig. 29); il traditore (traditor) legato per il piede destro (fig. 29); il sacrilego (sacrilegius)49 attraverso una fune che gli cinge la vita (fig. 30). Accanto al ladro è appeso, attraverso l’occhio destro, un peccatore a cui non è attribuita alcuna qualifica (fig. 26). Questi potrebbe essere un falso testimone, un testimone oculare che ha mentito su ciò che ha visto e per questo il suo occhio viene utilizzato come uno strumento della sua tortura50.
Ad eccezione del sacrilego, i dannati sono legati all’albero infernale con la parte del corpo che ha reso possibile il compimento del peccato: una sorta di contrappasso in cui l’organo che ha peccato diviene uno strumento del castigo eterno.
Il tema è lo stesso proposto dalla Visione di san Paolo (Visio Pauli): «E sancto Paulo puose mente alle porte del ninferno, e vide arbori di fuoco ardenti; e gli peccadori saliano e discendieno per questi arbori et istavano inpesi in quelli arbori, tali per le mani, tali per li piedi, tali per le lingue, e tali per gl’orecchi»51 .
La rappresentazione dei peccatori appesi ad un albero ricorda quella della pittura infamante52. Ma, nell’ambito di un Giudizio Universale e quindi in un contesto religioso, questa immagine violenta, tratta dalla vita quotidiana, assumeva un aspetto ancora più insopportabile, perché l’infamia, e soprattutto il terrore della tortura fisica, venivano proiettati nell’eternità: una punizione senza fine.
Poco più in basso due demoni sono intenti a dividere in due parti, verticalmente, con una grossa sega, il corpo di Urbano VI celato, come si è visto, dallo «pseudonimo» di «Julianus apostata».
Al centro della raffigurazione dell’inferno è Lucifero” (fig. 19), con i piedi, le mani ed il collo incatenati. Il re degli inferi tiene in braccio re e nobili malvagi, l’iscrizione recita tirandi (tiranni). Essi, riconoscibili dai copricapi e dalle corone (sono infatti nudi), hanno una espressione implorante: lo suggeriscono le mani giunte con le dita incrociate e i loro volti atterriti, alcuni digrignano addirittura i denti.
Alle spalle di Lucifero, un drago alato (figg. 32 e 25 ), dalle smisurate dimensioni, occupa gran parte del regno infero. Emette fiamme dalla bocca e dalle orecchie e sembra essere l’origine del fuoco infernale. La sua bocca divora alcuni peccatori sulle cui colpe non è possibile sapere: mancano qualifiche scritte ed attributi particolari che possano identificarli. Essi sono divorati in prossimità dell’ingresso dell’inferno, proprio sotto il registro occupato dai dannati ancora vestiti che, legati ad una catena, vengono trascinati da un diavolo all’interno del regno di Satana. La coda del grosso drago, che si trova in posizione diametralmente opposta rispetto alla sua testa (in basso, alla destra dell’inferno), è munita di una seconda testa, più piccola della prima, che divora o forse rigurgita un altro dannato, anch’esso non identificabile (la parte inferiore dell’affresco, ai piedi di Satana, è piuttosto lacunosa)54. Il drago raffigurato nella chiesa della SS. Annunziata di Sant’Agata de’ Goti è simile a quello descritto da santa Francesca Romana nelle sue Visioni
Vide anche uno dragone grandissimo, lo quale stava nello dicto inferno et teneva tucti & tre li dicti luochi [nella visione l’inferno è diviso in tre scomparti, uno inferiore, uno intermedio, uno superiore]: lo capo stava nello luoco de sopre, lo cuorpo nel luoco de mieso, & la coda nel luoco de socto. Stava lo capo del dicto dragone in meco della intrata dello inferno, ma poco de socto alla dicta intrata; & teneva la bocca aperta colla lingua de fore, della quale gessiva grandissimo fuoco, non però che lucessi, ma era nerissimo & rendeva grandissimo e crudele calore. […] Et puoi che li demonii avevano menata la meschina anima infine alla boccha o vero intrata dello inferno, alcuna anima gettavano collo capo de socto nella boccha dello sopradicto dragone, la quale stava sempre aperta; et da esso dragone era devorata & prestamente gessiva la misera anima fore dello ventre dragone […]55.
Anche la sorte degli scomunicati (excomunicati) descritta nella visione della santa è analoga a quella dello sconosciuto peccatore divorato o forse espulso dalla coda del drago posta nella parte inferiore dell’affresco: «Delli excomunicati […] erano messe nel principio nella bocca dello dragone, corno è sopra dicto. Et non gessivano dello ventre dello dragone corno l’altre anime, ma stavano nella coda dello dragone, la quale coda stava nello profondo luoco»56.
Nella sezione inferiore del regno infero sono raffigurati, particolare che rende particolarmente originale questo affresco, dei Un’oratori che, proprio per l’errato esercizio della propria professione, sono puniti nel fuoco eterno.
Essi sono tutti avvolti dalle fiamme e ciascuno ha una sorta di punitore personale: un serpente che morde loro le braccia. Sono tutti immortalati nell’atto di esercitare la propria attività e hanno, annotata accanto, una scritta che li qualifica.
Un fabbro (ferraro), munito di incudine e martello, è intento a lavorare il ferro (fig. 33); un banchiere (bancherius), seduto presso una rudimentale tavola, conta delle monete (fig. 34); un giudice (index) ed un notaio [notarius), seduti presso la medesima scrivania, tengono in mano un codice aperto ed un documento in pergamena e sembra siano intenti a conversare ira loro (fig. 35); un calzolaio (sutor) è raffigurato nell’atto di tagliare con delle forbici un pezzo di cuoio, o di tessuto (fig. 33).
Più in basso un mugnaio (molinator) dotato di una macina a pedale è intento appunto a macinare granaglie; al suo fianco un macellaio (buccerius) e un oste (tabernarius) sembrano conversare (fig. 36). Il primo ha nelle mani presumibilmente dei pezzi di carne; il secondo solleva con la mano destra un grosso boccale, con un gesto simile a quello di chi sta per proporre un brindisi.
A seguire un personaggio non facilmente identificabile: l’affresco non è in buone condizioni e la lettura della didascalia che qualifica l’uomo è piuttosto deteriorata. Reputo possa essere un sarchiatore, sia dall’interpretazione di ciò che resta della legenda (subr… ator, da intendere «subruncator», sarchiatore), sia dall’oggetto impugnato nella mano destra, che potrebbe essere una roncola: l’attrezzo dalla lama ricurva fissata ad un manico di legno usato per la potatura delle piante e per liberare il terreno dalle erbe infestanti
ri tre tipi di peccatori. Vi è un usuraio (usuraro), contro cui infierisce un diavolo costringendolo ad ingurgitare del liquido dal colore grigio, probabilmente del metallo fuso (fig. 38). L’immagine dell’usuraio punito in questo modo, o in maniera simile, non è nuova: essa si trova, per esempio, nell’affresco del duomo di San Gimignano, dove questo peccatore è costretto ad ingoiare monete defecate da un diavolo, e nella miniatura perduta dell’Hortus Deliciarum di Herrad di Hohenbourg (XII secolo), in cui un diavolo versa, dalla borsa legata alla cintura, delle monete nella bocca dell’usuraio.
Un dannato messo allo spiedo, di cui non ci è pervenuta nessuna qualifica, potrebbe essere un sodomita (fig. 36), in analogia con la stessa punizione inflitta al medesimo peccatore nell’inferno dipinto da Taddeo di Bartolo nel duomo di San Gimignano e nella cripta della chiesa di S. Francesco a Leonessa, in provincia di Rieti (XV secolo)57.
Una figura femminile dai lunghi capelli biondi, anch’essa senza qualifica, impugna nella mano destra una piccola ampolla per il profumo e, nella sinistra, uno specchio (di cui è visibile solo una parte poiché, anche in questo caso, l’affresco è deteriorato). La donna, che ostenta i simboli della seduzione femminile (la lunga chioma bionda – attributo per antonomasia della Maddalena e quindi dell’istigazione alla lussuria -, il profumo, lo specchio), potrebbe essere una prostituta, considerando la prostituzione come uno dei mestieri che non vengono esercitati senza commettere peccato e ritratti in questa specifica sezione dell’affresco; oppure, più semplicemente, potrebbe rappresentare l’allegoria della lussuria
Pene transitorie
Sotto e a fianco dell’altare dell’Etimasia sono raffigurate due scene relative al purgatorio. Una scritta, posta sotto quella relativa ai santi Innocenti, recita: pro missas pro helemosina(m). Le anime del purgatorio escono da un antro roccioso; accanto gli angeli le accolgono (ogni angelo si occupa di una sola anima). Alcuni di essi suonano (un angelo ha una giga, un altro sembra impugnare una viella) e guidano le anime monde dal peccato verso la zona dell’affresco in cui è raffigurato il paradiso con i patriarchi. Sono le anime di coloro che hanno finito di scontare più celermente la pena prevista per i peccati veniali compiuti in vita. Esse hanno beneficiato dell’intercessione dei vivi, che in loro favore hanno fatto celebrare messe ed hanno offerto elemosine alla Chiesa, garantendo loro un periodo di purgazione più veloce (figg. 39-40).
Alla destra dell’altare si presenta un’altra scena relativa alle anime del purgatorio: da una cavità rocciosa in cui c’è un fiume – le cui acque sembrano scorrere veloci – fuoriescono altre anime di peccatori (ci aiutano le diciture fornicatio, avaritia), richiamate da un angelo che le invita a presentarsi al rito della pesatura dell’anima58. Coloro che stanno per emergere dalle acque hanno un atteggiamento orante, non diverso da quello assunto dai personaggi che escono dagli avelli.
Il fiume ricorda il Letè dantesco, in cui le anime e lo stesso poeta fiorentino vengono immersi al termine del percorso di purificazione e da cui escono dimentichi dei peccati commessi59.
Attraverso la scelta di ritrarre l’uscita delle anime dal purgatorio in modo duplice, si evidenzia l’efficacia delle azioni dei vivi in favore dei morti. Coloro infatti che hanno goduto dei benefici di messe in suffragio, o per cui parenti ed amici hanno compiuto le elemosine, raggiungono attraverso una strada più diretta il paradiso: escono dal purgatorio senza dovere sottostare alla immersione nel fiume purificatore.
Più in basso, alla sinistra della parete su cui è raffigurato l’inferno, risiedono altri due gruppi di anime: il primo gruppo, formato da figure maschili visibili dalla testa ai fianchi, si trova in una cavità rocciosa; il secondo gruppo è invece formato da figure (di cui si vedono solo le teste) immerse in una sorta di pozzo
Questi due luoghi non sono avvolti dalle fiamme dell’inferno e coloro che vi risiedono non sembrano subire alcun tipo di tortura, ma piuttosto hanno l’aspetto di chi è in attesa. Purtroppo le iscrizioni che restano sono di poco aiuto per cercare di comprendere la differenza tra i due luoghi e per definire la loro identità precisa. Sul bordo del puteale restano poche lettere (lo poc…, o forse lopoc.. ), sulla cavità rocciosa ancora meno (lol…). I due articoli al maschile singolare («lo») lasciano intendere che le due iscrizioni perdute si riferivano a qualificare il luogo piuttosto che il gruppo di anime in esso raffigurate.
Certa è la delimitazione netta con il vicino inferno: non ci sono fiamme, né serpenti, né diavoli; credo si possa affermare ragionevolmente che la cavità inferiore rappresenti il limbo60 (anche per l’iscrizione «lo l[imbo]») e che il pozzo superiore («lo poc[co]») sia una sezione del purgatorio.
La condanna dei peccati in base allo «status» socio-professionale
Come si è già scritto, tratto originale di questo Giudizio Universale è dato dalla presenza all’inferno di categorie socio-professionali. Questo tema, presente anche in altri cicli di Giudizi Universali dell’Italia centro-meridionale61, costituisce una testimonianza dell’affermazione nella realtà economica e civile del Basso Medioevo di categorie professionali quali giudici, mercanti, notai, artigiani, la cui attività era indispensabile al normale svolgimento della vita quotidiana. E come la società diveniva sempre più complessa ed articolata, così l’immaginario infernale si adeguava ai mutamenti della vita terrena, affiancando ai peccatori rei di aver commesso vizi capitali anche quelli che avevano commesso peccati legati all’esercizio della propria professione. Alla categoria del peccato si veniva affiancando la categoria del peccatore, proprio in virtù della importanza crescente che ogni categoria professionale acquisiva all’interno della società. La Chiesa, attenta alle evoluzioni socio-culturali, percepiva i cambiamenti e cercava di controllarli: il campo della predicazione e quello della confessione si adeguarono all’insegnamento della religione ad status.
Famosi predicatori come Giordano da Pisa (XIV secolo) e Bernardino da Siena (XV secolo) dedicarono gran parte della loro predicazione a mercanti e artigiani. A questi veniva contestato il commercio con frode e dolo, attraverso l’uso di falsi pesi e misure, oppure la vendita di merce scadente o fallata a danno di ignari acquirenti, o anche il peccato di usura. Dice Giordano:
Et peccano [li mercatanti] in tre modi, cioè: in substantia rei, in qualitate et in mensura. in substantia rei, in della sustantia della cosa, però che molte volte vendono una cosa per un’altra. Vendranno una cosa per oro et non sarà. Questa è falsità somma! Et questi cotali mercatanti son cacciati da Dio del tempio, però che sono mali mercatanti, che vendono una cosa per altra, là unde elli offendono Dio in verità. In del secondo modo peccano li mercatanti in falsitade di qualità: che ben sarà oro, ma non buono, et vendrallo per buono! Questo è grandissimo inganno, ad vendere la mala mercatantia per buona. Questi sono mali mercatanti! Et questi son cacciati da Cristo del tempio, però che ingannano li proximi, et soline tenuti ad restitutione d’ogni danno dato. Nel terco modo ingannano lo proximo in mensura, et questi cotali mercatanti son cacciati del tempio come io diroe. Molte sono le misure: l’una è misura di cocine o vero bilancie, però che alcune cose sono che ssi pesano; un’altra misura è che ssi fa ad canna. Un’altra misura è come sono li denari, li quali, secondo Aristotile, sono una misura generale colla quale tutte le cose si stimano. Li mercatanti li quali ingannano, et vendono coi falsi pesi o pesano male o danno false monete, sono cacciati del tempio di Dio et dannati. Anco quelli che fanno le male misure colle canne, però che stendono troppo lo panno, sono cacciati del tempio, però che in falso modo lo vendono. Anco li mercatanti che falsamente et con false paraule induceno li compratori sono cacciati del tempio. Anco quelli che misurano colla mala misura della pecunia. Verbi gratia: però che vendono le lor cose oltra quello ch’elle vagliono. Ae volontà quelli che vende di vendere la cosa in doppio più che non vale: questi è malo merchatante et è cacciato del tempio, pero che misura la cosa siili con troppo grande misura, unde però pecca et ènne tenuto ad restitutione. Et lo simigliante dico di tutte queste cose in del comperatore, se elli vuole ingannare lo venditore: però che la cosa buona vuole comprare per ria et avìliala, et vorrebbela comprare per la metà meno ch’ella vale. Questi è mal mercatante et de’ essere cacciato del tempio. Unde non è licito ad avere mala volontà ad volere ingannare lo proximo. […] Or potresti tu addimandare se fusse licito ad vendere le mercatantie ad termine. Rispondoti che se tu non vendi la cosa più per lo termine che la possi vendere al termine, non pecchi. Altrementi se tu la vendi al termine più per la ragione del termine, allora è usura et pecchi mortalmente. Anco si suole dimandare quando la pecunia si dà in prestansa o in accomandigia al mercatante et non di’ nulla ch’elli te ne dia merito, ma pur ài intentione d’averne alcuna cosa, stando sempre salvo lo capitale. Usura è, et non è licito di prendere alcuna cosa62.
In alcuni casi, secondo Bernardino da Siena, l’accusa rivolta ai mercanti è di spergiuro:
[…] quando con bugie, con sagramenti falsi vendi e compri la mercatanzia, o con mali pesi, o con cattive misure, con soffisticamenti, con mescolare una cosa con un’altra, come fanno gli speziali. E, ogni volta che giuri falsamente sopra a una mercatanzia, pecchi mortalmente, e così ogni volta di’ bugie, che si ricorda el nome di Dio invano, dicendo el falso e giurando el falso63.
Ai mercanti inoltre contesta l’esercizio della propria attività nei giorni e nei luoghi consacrati a Dio:
[…] che d’ogni tempo non debbi mercatare come sono e dì delle feste comandate da santa Chiesa da guardare; è massimamente doppio peccato mortale quando per lo mercatantare tu ne perdi la messa e il bene che tu se’ tenuto di fare. La sacrata quaresima il lasciare le prediche per avarizia e per cupidità di guadagnare è peccato mortale […] che in ogni luogo non è lecito il fare mercatanzia. È proibito el farla o il ragionarla nelle chiese, ne’ chiostri, ne’ cimiteri sagrati di santa Chiesa64.
Nel campo della confessione vennero redatti, a partire dal XIII secolo, manuali per confessori inesperti, una sorta di abbecedari della confessione in cui si riportavano lunghe serie di quesiti da porre in base ai vizi capitali e, in alcuni casi, anche in base allo status socio-professionale di coloro che si confessavano. Molto conosciuto, per quanto riguarda questa seconda tipologia di manuali, fu il Confessionale65 di Giovanni di Friburgo (m. 1314) che ebbe una grande divulgazione nei secoli XIV e XV. Sotto forma di promemoria, il Confessionale elenca una lunga serie di domande da porre ad ecclesiastici, giudici, avvocati, medici, docenti, mercanti, con tadini, artigiani, salariati. Questo catalogo di peccati e potenziali peccatori, opera di meticolosa classificazione, ci informa di tutte la colpe in cui gli uomini e le donne potevano incorrere. Inoltre manifesta la volontà dell’autorità religiosa di combattere i vizi in nome dell’ideologia cristiana e di promuovere dei modelli di comportamento sociale ad essa confacenti66.
Ma l’attenzione alla condanna del fenomeno non era propria solo della Chiesa: anche negli statuti cittadini medievali veniva dato largo spazio alla regolamentazione delle attività commerciali, soprattutto in funzione della repressione delle frodi a danno degli acquirenti67.
La condanna del peccato ad status ha testimonianze anche nella letteratura, in particolare nel genere letterario delle visioni dell’aldilà: singolari sono le già ricordate Visioni di santa Francesca Romana (XV secolo), che vide torturati all’inferno giudici, medici, farmacisti, macellai, osti. Nelle Visioni i giudici che hanno emesso false sentenze sono immersi in tini con oro e argento liquefatto e vengono dilaniati dai diavoli68. I medici – colpevoli di avere praticato aborti, di avere consultato libri proibiti, di avere esercitato la professione semplicemente a scopo di lucro e di avere prestato cure ai pazienti prima che questi si fossero confessati69 – sono appesi a testa in giù, posti tra graticole infuocate e graffiati dagli artigli dei demoni70. I farmacisti subiscono per i peccati di ignoranza e avidità le medesime torture dei medici71. Gli osti, poiché hanno peccato di frode vendendo vino annacquato, vengono immersi nel ghiaccio, poi nel vino bollente, quindi nell’aceto. Colpevoli del peccato di avidità, sono inoltre costretti a ingerire oro e argento liquefatto72. Infine i macellai: sono fissati ad una bilancia per mezzo di uncini conficcati nel collo e i demoni tirano contro di loro carne rancida (tra cui la trippa, usata per un tipico piatto romano). Questa punizione è dovuta al peccato di frode, poiché hanno venduto carne avariata per buona, o tipi di carne meno pregiata al posto di altri più gustosi e soprattutto più costosi. I demoni, simulando proprio il lavoro del macellaio, tagliuzzano le membra dei dannati come per farne salsicce, seguendo accuratamente «tale arte dello maciello»73.
Per quel che riguarda il genere letterario delle visioni va ricordata la prima, originalissima testimonianza dei professionisti all’inferno: la Visio Thurkilli, scritta in Inghilterra tra il 1207 e il 1208, che riporta il racconto del viaggio fatto nell’aldilà da Thurkillo, uomo di umili condizioni («ab homine rustico et linguae Latinae imperito»)74, originario dell’Essex.
Thurkillo descrive la presenza di un teatro infernale, dove i diavoli assistono allo spettacolo-punizione delle anime dei dannati, che sul palcoscenico ripropongono le azioni commesse in vita. Tra gli attori della singolare rappresentazione ci sono un giudice, un sacerdote, un agricoltore, un mugnaio e un mercante75.
Ulteriore testimonianza della letteratura quattrocentesca è invece un poemetto di origine campana privo di titolo, che, narrando le pene dell’inferno visitato dal suo anonimo autore, recita:
[…] Questi so’ iudici con molti notari, capitani, camerlenghi e giustizieri, li qua(l)i fuero ingannati per denari e non fecero la giustizia e li mistieri. Tristi e tappini, che fuer(o) tanto avari, per far grandi palazi e ricchi ostieri. Dello diritto ne fecero torto: mo’ stan(no) con Sattenasso a malo porto.
[…] Quelli de sotto sono fattuchiari,che del demonio fecero figura; quelli da lato so’ li tavernari, quelli che danno la mala misura; e tutti quell’altri sono li ferrari, che fan(no) li ferri contra omne mesura. […] Là vidi mercanti e cagnatori [cambiavalute] e medici e molti spiziali, vidivi calzolari e sartori, insiemora con essi macellari star(e) nell’inferno a quelli gran calori, perché all’arte non iro legali. Ognun tenea manti lor(o) sentenze, secondo che avian facte le offense.
[…] Delli orifici vi vo[glio] contare come in inferno stanno ben al fondo, ché si pensaro nell’oro lavorare, che mesticavano con ariento, rame e piombo; ma per la roba loro avantagiare, non resguardavano omo in questo mondo e non sguardaro amico né parente.
Nel fondo dell’inferno iaccion veramente. […] Qualunqua artefice sia che non face l’arte diritta come deve fare in sempiterna secula là iace; per ciò è buono dinanzi pensare, e questo è verità e non è fallace, perché ognuno la deve ben fare; e poi che c’entri non ne pòi uscire e non ti iova il tuo repentire76.
Nell’inferno della chiesa della SS. Annunziata particolare rilievo è dato ai tiranni stretti tra le braccia di Satana. Benché possa essere ragionevole l’ipotesi di un’allusione al re Luigi d’Angiò tra questi peccatori, è evidente -in analogia con la tradizione iconografica del Giudizio Universale che non di rado propone tra i dannati alle pene infernali monarchi e prìncipi – una forte denuncia contro il cattivo operato dei regnanti, i detentori del potere temporale che rispondono dell’amministrazione della giustizia umana. L’incapacità di tutelare gli abitanti dei territori di propria giurisdizione, imprese militari ingiuste, la vessazione della popolazione con tasse ingiustificate, l’inabilità a garantire la giustizia, il tollerare che la frode si insinui tra i commerci: tutto questo poteva realmente conferire ai regnanti l’appellativo di tiranni. L’operato dei regnanti ingiusti, la categoria di peccatori più numerosa in questo affresco (sono ben nove!), viene così condannato attraverso la collocazione dei diretti responsabili sul grembo di Satana”.
Vicino ai tiranni ci sono coloro che, ricoprendo cariche pubbliche – i loro atti sono l’emanazione del potere di un determinato territorio -. hanno approfittato della propria posizione per compiere atti illeciti: il giudice ed il notaio. Essi, non a caso, siedono presso la stessa scrivania e conversano ira loro.
Il giudice aveva molteplici occasioni per agire in modo scorretto, e dunque per meritare le pene infernali: l’abuso di potere, la negazione dell’appello nel corso di un processo, la negligenza nell’assicurare una adeguata assistenza legale alle categorie più deboli (poveri, orfani, vedove) e soprattutto l’emissione di sentenze ingiuste in cambio di denaro. Questa è l’accusa più frequente rivolta ai giudici: ne sono testimonianza, lo abbiamo visto, le Visioni di santa Francesca Romana (dove ai giudici falsari, condannati all’inferno, sono riservate delle torture assai sofisticate che variano dalla immersione in metalli liquefatti bollenti alla lacerazione delle membra per mezzo di uncini) e lo stesso poemetto anonimo quattrocentesco, che giustifica la dannazione di giudici e notai poiché per denaro non hanno esercitato la giustizia78.
Il fatto che giudice e notaio compaiano in questo affresco quasi in qualità di «colleghi» potrebbe non essere casuale, e neanche dovuto ad una scelta compositiva dell’artista esecutore del Giudizio. Sarà da ricordare la presenza nell’Italia meridionale della figura professionale del giudice ai contratti, figura sopravvissuta proprio nell’area beneventana oltre il secolo XIV e che poteva ancora essere presente all’epoca della realizzazione dell’affresco a Sant’Agata de’ Goti. Scrive Alessandro Pratesi a proposito della genesi del documento privato:
Nell’Italia meridionale longobarda il rogatario [colui che provvede alla stesura di un documento], indicato pressoché costantemente come notarius, non sottoscrive il documento, ma si limita a dichiarare, in forma ora diretta ora indiretta, di aver proceduto alla sua stesura: la credibilità del suo scritto è dunque affidata unicamente alle sottoscrizioni testimoniali; ma è sintomatico il fatto che con frequenza sempre maggiore si ravvisa e nell’azione giuridica e nella documentazione la presenza di un giudice o di un funzionario amministrativo con mansioni giudiziarie il quale, conferendo il suo riconoscimento al rapporto giuridico, trasferisce tale garanzia di stabilità al relativo documento, da lui stesso sottoscritto: di qui si verrà gradualmente formando quella categoria di giudici ai contratti, tipica dell’Italia meridionale, che avrà sanzione ufficiale nella legislazione di Federico II. […] La sottoscrizione del giudice [continuerà a figurare] nel territorio beneventano, ancora per lungo tempo, fino a tutto il XIV secolo e oltre79.
Il notaio, figura professionale di grande prestigio perché sapeva scrivere, interpretare e tradurre dal latino al volgare e viceversa, poteva essere volutamente l’estensore di un documento il cui testo non corrispondeva a verità e che un giudice consenziente poteva autenticare. Questo giustificherebbe l’immagine della chiesa della SS. Annunziata in cui i due professionisti sono ritratti insieme a confabulare.
11 notaio inoltre poteva prestare la propria opera per la compilazione di contratti che sancivano atti ritenuti illeciti80.
Il giudice ed il notaio sono circondati da altri professionisti peccatori, condannati per essere principalmente degli imbroglioni. Essi sono: il banchiere, il mugnaio, il macellaio, l’oste, il sarchiatore ed il calzolaio.
La presenza del banchiere all’inferno è presumibilmente da attribuirsi a due cause: la prima è legata al suo ruolo originario di cambiavalute che, seduto dietro un banco, proprio come rappresentato nell’affresco della chiesa della SS. Annunziata, praticava il cambio del denaro grazie alla conoscenza dei tipi e dei valori delle monete in circolazione, controllandone la lega. Dunque il banchiere poteva, se disonesto, approfittare delle proprie competenze per truffare coloro che cambiavano denaro in più modi: con cambi errati, oppure fornendo consapevolmente denaro falso. Un ulteriore motivo rendeva però il banchiere inviso alla Chiesa: l’accusa di usura. Dal XII secolo la diffusione del commercio internazionale impose metodi di pagamento alternativi al trasporto di valuta; nacque la cambiale, mediante la quale il prestatore, nel nostro caso il banchiere, forniva una somma di denaro al debitore, il quale si impegnava a restituirla alla scadenza stabilita, ma in altra valuta. Il contratto prevedeva per il prestatore un interesse per l’operazione di cambio, ovvero un guadagno sicuro su un prestito, guadagno che, non essendo giustificato dal rischio incorso, veniva condannato dalla Chiesa come usurano81. Il banchiere, dunque, se usuraio e truffatore era inevitabilmente destinato alle pene dell’inferno.
Altro truffatore ritratto nell’inferno è il mugnaio82, la cui attività era soggetta ad una precisa regolamentazione. In determinati luoghi egli era tenuto a giurare, alla presenza di pubblici ufficiali, di esercitare in modo onesto e corretto la propria professione. La sua funzione, di assoluta utilità pubblica, lo esentava dalle campagne militari. Era tenuto a garantire la macinazione del grano per chiunque si presentasse al suo mulino, seguendo un preciso ordine di precedenza, senza possibilità alcuna di fare delle eccezioni. Egli doveva riconsegnare la farina ricavata dalla macinazione del frumento entro un termine preciso, stabilito dalla legge. Sempre per legge doveva trattenere per sé, come pagamento per il lavoro prestato, un determinato quantitativo di farina, in genere equivalente ad un sedicesimo del frumento macinato (l’indice di resa). Per evitare ogni possibile frode, le autorità locali imponevano al mugnaio l’utilizzo di bilance da loro controllate e marchiate; vigilavano affinché non aggiungesse al grano di migliore qualità e maggiore prezzo cereali meno pregiati, oppure, per aumentare il peso e la resa, cenere, gesso, calce. Altra frode che il mugnaio era tenuto ad evitare era quella di bagnare le farine, sempre per aumentare il peso del prodotto macinato. Un’ultima operazione rendeva il mugnaio particolarmente inviso: l’accumulo di ingenti quantitativi di grano da rivendere in momenti particolarmente drammatici (carestie, guerre, siccità) speculando sul prezzo83. Questo spiega l’avversione della popolazione nei confronti di una categoria che si arricchiva ed era pronta a lucrare su un bene primario, la farina, principale mezzo di sostentamento per le categorie più deboli.
L’accusa di furto nei confronti del mugnaio non si è limitata al Medioevo, ma si è diffusa nei secoli, e ancora sopravvive attraverso detti, proverbi e canzoni popolari tanto da rendere l’associazione mugnaio-ladro assai popolare: «Puoi cambiare il mugnaio, non cambierai il ladro»; «Quando il topo è nel sacco si prende per il mugnaio»84.
Degno di nota un canto popolare toscano citato da Carlo Ginzburg:
Andai all’inferno e vidi l’Anticristo e per la barba aveva un molinaro, e sotto i piedi ci aveva un tedesco, di qua e di là un oste e un macellaro: gli domandai quale era il più tristo, e lui mi disse: Attento, or te l’imparo. Riguarda ben chi con le man rampina: è il mulinar dalla bianca farina. Riguarda ben chi col le mani abbranca, è il mulinar dalla farina bianca. Dalla quartina se ne va allo staio; il più ladro tra tutti è il mulinaio85.
Accanto al mugnaio è ritratto il macellaio, rappresentante di una categoria professionale tra le più diffuse; anch’egli dimora all’inferno a causa del peccato di frode.
I macellai erano sottoposti al controllo delle autorità pubbliche che regolavano le attività di tutti i mestieri legati al commercio di viveri; tali autorità controllavano, oltre alla qualità delle merci, l’uniformità dei pesi e delle misure. Si raccomandava ai macellai di collocare le diverse qualità di carne in vendita su banchi differenti, al fine di evitare scambi fraudolenti a danno dei clienti nel momento dell’acquisto. I macellai erano tenuti a macellare gli animali nei luoghi e nei tempi stabiliti dalla legge, affinché non fossero elusi i controlli sul bestiame: si tendeva ad evitare per esempio la macellazione di carni di animali morti per malattia o per cause naturali86. Inoltre, secondo le norme che valevano per qualsiasi operatore di bottega, il macellaio doveva vendere la propria carne di giorno, poiché l’oscurità mascherava la frode sulla qualità e sulla quantità della merce. Egli inoltre non doveva attirare, con urla e schiamazzi, i clienti che si erano avvicinati ai banchi dei colleghi; un richiamo dunque all’etica professionale.
Appoggiato allo stesso tavolo del macellaio c’è l’oste. Anche per questa categoria professionale le occasioni che portavano al peccato, e quindi alle pene infernali, erano molteplici. In primo luogo l’oste lavorava nella taverna, il tempio dell’ubriachezza in cui si incontravano briganti, giullari, ladri, prostitute; viveva ed esercitava la propria professione in un ambiente contaminato da peccatori. Egli avrebbe dovuto impedire che nel proprio locale venissero pronunciate bestemmie (alimentate dall’ubriachezza); che gli avventori giocassero d’azzardo o si ubriacassero; avrebbe dovuto vigilare su risse ed eventuali ferimenti (generati dalle perdite al gioco); non avrebbe dovuto dare albergo alle prostitute (che però incrementavano la clientela). Ma, a giudicare dall’alto numero di procedimenti penali relativi ad accoltellamenti, bestemmie e risse denunciati nelle locande87, gli osti erano impegnati più a mescere e vendere vino e a tollerare ogni sorta di clientela piuttosto che a garantire il decoro e l’ordine pubblico. La taverna era una attraente alternativa alla chiesa; i fedeli, dimentichi degli obblighi religiosi, preferivano fermarsi a bere vino piuttosto che seguire la messa: era il tempio del diavolo. Ma il peccato più contestato agli osti era indubbiamente quello di frode per avidità di guadagno: l’uso di mischiare il vino con l’acqua, o la vendita di un vino al posto di un altro, differente per provenienza, qualità e prezzo.
Accanto all’oste è ritratto un contadino, o più in particolare il sarchiatore.
Quali tipi di frode poteva commettere un agricoltore durante lo svolgimento della propria attività lavorativa? Il contadino aveva la possibilità di truffare i propri padroni ed i proprietari confinanti in più occasioni: derubando le colture; cambiando le linee di confine dei campi durante i lavori di aratura; danneggiando le coltivazioni ed i raccolti per incuria o per vendetta88. Gli agricoltori dediti al furto e alla frode venivano intimoriti attraverso la rappresentazione della loro immagine tra i dannati alle pene infernali; nessuna attenuante era prevista per le condizioni di estrema povertà in cui vivevano.
Figura anche, tra i dannati truffatori, il calzolaio. Come tutti gli artigiani egli poteva lucrare illecitamente sul compenso per l’opera prestata facendo pagare troppo il proprio lavoro, oppure ingannando sulla qualità dei manufatti, vendendo prodotti scadenti o fallati agli acquirenti. Per Bernardino da Siena il calzolaio truffatore non appartiene a Dio: «Se tu se’ di quelli di Dio, sempre fai l’operazioni tue con carità, calde e ardenti. Se tu se’ del mondo, mai non farai opera calda, però che in te non è carità. E però considera te stesso, di quali tu se’. Piglia l’essemplo. Se se’ calzolaio, elli viene uno a te: – Che vuoi di queste scarpette? – Io ne voglio quindici soldi. – Se tu le dai a meno, tu non parlasti con carità, e hai mentito. Oltre. -O calzolaio, fammi un paio di scarpette buone. – Elli dice: – Io te le farò migliori che sieno in Siena. – Se non le farai come tu hai detto, tu non se’ di quelli di Dio»89.
Ancora un altro artigiano viene ritratto tra i dannati: è il fabbro. A questo artefice era contestato il cattivo uso della propria arte: la costruzione di armi – spade, frecce, balestre – destinate ad essere utilizzate in combattimenti, guerre e duelli lo rendeva indirettamente responsabile di essere un promotore di spargimenti di sangue, accoltellamenti, omicidii, rapine. Il poemetto anonimo campano sopra citato giustifica la presenza dei fabbri all’inferno poiché «fan(no) li ferri contre omne mesura»90; la frase potrebbe alludere, confermando quanto detto, alla dimensione delle armi, realizzate in misure sproporzionate e quindi più pericolose, ma anche alla produzione di manufatti che non rispondevano alle grandezze richieste dagli acquirenti, nella cui realizzazione il fabbro poteva guadagnare lucrando sulla materia prima.
Alla destra di Satana sono stati invece immortalati l’usuraio e la iigura femminile che potrebbe simboleggiare una prostituta.
L’usuraio avido di guadagno è punito perché si arroga il diritto di arricchirsi attraverso la riscossione di un interesse come corrispettivo di una prestazione che non contempla né la produzione, né la trasformazione di beni materiali concreti (e quindi neanche un margine di rischio). L’usuraio vende il tempo che intercorre tra il momento in cui presta denaro e quello in cui viene rimborsato con un plusvalore; ma il tempo appartiene solo a Dio, egli perciò trae profitto dalla vendita di un bene che non gli appartiene. Ammoniva san Bernardino:
[…] ancora sono venditori della grazia di Dio. Natura di Dio si è dare la grazia a noi; prestare a usura è vendere la grazia di Dio. El tempo è dato a noi per grazia di Dio, e tu el vendi, quando vendi al tempo, più che a contanti. Inverso el prossimo, peccano grandemente. Che cosa è usura, usuraio? È una cosa di crudeltà. In alcuno luogo è chiamato el prestatore, el piatoso, ma è molto crudele. Dirà alcuno: – E non si può fare senza prestatori, e servono i bisognosi.
Come gli servono? Isbudellandogli, e, se sono poveri, gli fanno più poveri. Seconda malignità. L’usuraio è arca d’iplochesia. Non vedi tu che gli pare fare servigio al prossimo prestandogli a usura, e radelo insino all’osso?
Gli usurai sono di schiatta di barbèri che radono gli uomini, anzi gli pelano infino che ne viene il sangue vivo. Terzamente ancora, contro al prossimo è l’usuraio ispilonca di landroncelleria. Gli usurai son ladri. Non sai tu che Cristo, a’ ventuno capitoli di san Matteo, quando andò nel tempio che cacciò fuori gli usurai e gli altri, e’ disse loro: «La casa mia debb’essere casa d’orazioni, e voi l’avete fatta spilonca di ladroni»?
Sicché gli chiama ladroni gli usurai, non che ladri’91.
Gli esegeti e i predicatori medievali erano concordi: l’usuraio era condannato alle pene eterne senza alcuna possibilità di appello92. Forte doveva essere anche l’avversione degli uomini nei confronti di questo professionista, vedendo in lui, come ancora accade oggi, uno speculatore sui bisogni e sulle difficoltà altrui.
All’estrema destra dell’inferno, sotto alla raffigurazione del limbo, è ritratta la prostituta. E l’istigatrice del peccato di lussuria; il suo peccare danneggia se stessa ed i clienti che seduce. La donna sembra intenta ad affilare le armi della propria arte, la seduzione, impugnando nella mano destra una piccola bottiglia di profumo e nella sinistra uno specchio. Attraverso questa figura viene espressa la condanna di una operazione ingannevole: la donna, ricorrendo ai belletti e alla cura dei capelli, propone agli altri, in particolare agli uomini, una immagine di sé migliore, ma falsa, perché non corrisponde all’autenticità della propria figura93.
L’usuraio e la prostituta sono puniti in quanto esercitano professioni condannate nella loro totalità e non perché queste possano essere esercitate anche in maniera fraudolenta. In questi due casi reputo perciò più corretto parlare di condanna dello status peccaminoso, piuttosto che di condanna del peccato ad status. Forse anche l’autore dell’affresco della chiesa della SS. Annunziata di Sant’Agata de’ Goti ha voluto consapevolmente separare questi due peccatori dal resto dei dannati, ponendoli alla destra di Satana e non raggruppandoli insieme agli altri professionisti, posti invece alla sinistra del demone.
L’affresco del Giudizio Universale, nel suo insieme, era l’ultima immagine che gli uomini e le donne del Medioevo vedevano uscendo dalla chiesa al termine delle funzioni religiose. Esso rappresenta la testimonianza, in chiave iconografica, del pensiero cristiano, che promette ricompense o castighi dopo la morte e si sforza di indirizzare gli usi e i costumi degli uomini e delle donne in funzione dell’aldilà. Lo scopo di queste immagini era didattico; tutti coloro che osservavano l’affresco erano portati, volentieri o meno, ad una riflessione sulle azioni compiute.
In questo affresco viene tradotta in immagini la conflittualità sociale scaturita dal mancato rispetto delle regole da parte di categorie divenute protagoniste della scena economica ed amministrativa della società. Una conflittualità denunciata dallo scenario cupo (soprattutto rispetto al paradiso), dalle torture e in particolare dal ritratto inconfondibile dei peccatori, la cui identità è palesata grazie alle didascalie poste accanto a ciascuno di loro; come non bastasse, sono anche immortalati nell’esercizio della propria attività, muniti degli strumenti utili alla propria arte. Artigiani e mercanti sono condannati per gli eccessi di lucro, per l’avarizia; la stessa condanna è imputabile ai giudici, ai notai ed ai banchieri che, pur non vendendo materie prime o manufatti, forniscono prestazioni professionali compiendo atti illeciti per cupidigia di denaro.
Questo Giudizio Universale, con il suo programma iconografico, testimonia che per una società articolata e complessa la semplice condanna dei vizi capitali e in particolare dell’avarizia non è più adeguata nel XV secolo: troppo generica per indurre tutte le categorie di peccatori alla contrizione. La natura del peccato si palesa maggiormente quando l’immagine mostra in modo inequivocabile la punizione del peccatore. Così i calzolai, i giudici, i notai, gli osti, i macellai, gli agricoltori, i banchieri, che guardavano la propria immagine ritratta nell’inferno, erano sollecitati a riflettere sul proprio comportamento in una prospettiva escatologica. La rappresentazione delle punizioni era una minaccia assai efficace per atterrire ed ammonire i peccatori. Coloro invece che avevano subito il torto o la truffa da parte di questi professionisti potevano forse rallegrarsi, riponendo nella giustizia divina le disattese speranze in quella terrena.
Nella raffigurazione dell’inferno della chiesa della SS. Annunziata è evidente che tutti i peccatori sono richiamati dal monito del memento mori ad una condotta di vita conforme agli ideali della Chiesa; ma alcuni lo sono più degli altri. La condanna forte sembra essere per i cattivi governanti, i tiranni, ritratti in gran numero – è l’unica tra le categorie raffigurate ad avere tanti rappresentanti – al centro dello scenario infernale. Essi non sono soltanto ritenuti responsabili degli atti illeciti compiuti in prima persona, ma anche degli esiti nefasti della loro condotta, che ha consentito il proliferare di ingiustizie. Gli attori di queste ingiustizie sono tutti intorno a loro: professionisti corrotti (giudice e notaio), truffatori (banchiere, mugnaio, macellaio, oste, sarchiatore e calzolaio), peccatori incorreggibili (usuraio, prostituta).
Questo monito rimaneva negli occhi e nel cuore dei fedeli alle prese con occupazioni che sarebbero potute continuare, come tragica punizione, nell’aldilà. Il Cristo ritratto nella mandorla, enorme per dimensioni ed austero nel mostrare le piaghe in virtù delle quali giudica l’umanità, è il trionfatore della scena. I tiranni appaiono, rispetto all’immagine del Giudice, minuscoli, così che il loro prestigio, la loro importanza, e dunque il loro potere terreno, siano palesemente ridimensionati. Ad evidenziarne l’impotenza i loro volti sono impauriti; corone e copricapi sono simboli di un potere ormai perduto.
Con la dannazione dei detentori del potere terreno viene condannato il cattivo esercizio della giustizia umana: è l’affermazione solenne del primato del Cristo Giudice sulla giustizia terrena.
1 Testi dì riferimento per lo studio iconografico del Giudizio Universale sono: J. Baschet, Les justices de l’audelà. Les représentations de l’enfer en France et en Italie (XIIe-XVVe siècle), Ecole Frangaise, Rome 1993; Y. Christe, Il Giudizio Universale nell’arte del Medioevo, Jaca Book, Milano 2000.
2 E. Male, Le origini del gotico: l’iconografia medievale e le sue fonti, Jaca Book, Milano 1986, p. 19.
3 L’apparizione di Cristo in cielo nel giorno del Giudizio è cosi annunciata nei Vangeli: «Et tunc paravit signum Filii hominis in caelo et tunc planget omnes tribus terrae et videbunt Filium hominis venientem in nubibus caeli cum virtute multa et maiestate, et mittet angelos suos cum tuba et voce magna et congregabunt electos eius a quattuor ventis a summis caelorum usque ad terminos eorum» («Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’Uomo, tutte le tribù della terra si batteranno il petto e vedranno il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi del cielo con gran potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli che, con tromba dallo squillo potente, raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli»): Matteo, 24, 30-31 ; «Et tunc videbunt Filium hominis venientem in nubibus cum virtute multa et gloria et tunc mittet angelos suos et congregabit electos suos a quattuor ventis a summo terrae usque ad summum caeli» («Allora si vedrà il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi, con grande potenza e gloria. Allora manderà i suoi angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo»): Marco, 13,26-27.
4 «Et qui sedebat similis erat aspectui lapidis iaspidis et sardini et iris erat in circuitu sedis similis visioni smaragdinae» («Colui che vi sedeva era simile nell’aspetto alla pietra di diaspro e disardio e il trono era circondato da un’iride simile allo smeraldo»): Apocalisse, 4,3; «Et super firmamentum quod erat imminens capiti eorum quasi aspectus lapidis sapphyri similitudo throni et super similitudinem throni similitudo quasi aspectus hominis desuper. Et vidi quasi speciem electri velut aspectum ignis intrinsecus eius per circuitum a lumbis eius et desuper et a lumbis eius usque deorsum vidi quasi speciem ignis splendentis in circuitu velut aspectum arcus cum fuerit in nube in die pluviae hic erat aspectus splendoris per gyrum» («E sul firmamento, che era sopra le loro teste, apparve come una pietra di zaffiro, in forma di trono, e su questa specie di trono, in alto, una figura in sembianze d’uomo. Da quelli che parevano i suoi fianchi in su, era come un fulgore di metallo splendente, e dai suoi fianchi in giù, come una visione di fuoco, con tutt’intorno uno splendore, simile a quello dell’arcobaleno che appare tra le nubi in un giorno di pioggia»): Ezechiele, 1, 26-28.
5 «Haec quoque dixit Deus ad Noe et ad filios eius cum eo: Ecce ego statuam pactum meum vobiscum et cum semine vestro post vos et ad omnem animam viventem quae est vobiscum tam in volucribus quam in iumentis et pecudibus terrae cunctis quae egressa sunt de arca et universis bestiis terrae statuam pactum meum vobiscum et nequaquam ultra interficietur omnis caro aquis diluvi! neque erit deinceps diluvium dissipans terram. Dixitque Deus: Hoc signum foederis quod do inter me et vos et ad omnem animam viventem quae est vobiscum in generationes sempiternas arcum meum ponam in nubibus et erit signum foederis inter me et inter terram, cumque obduxero nubibus caelum apparebit arcus meus in nubibus et recordabor foederis mei vobiscum et cum omni anima vivente quae carnem vegetat et non erunt ultra aquae diluvii ad delendam universam carnem eritque arcus in nubibus et videbo illum et recordabor foederis sempiterni quod pactum est inter Deum et inter omnem animam viventem universae carnis quae est super terram. Dixitque Deus: Noe hoc erit signum foederis quod constimi inter me et inter omnem carnem super terram» («Poi Dio parlò a Noè e ai suoi figli: Ecco, io concludo il mio patto con voi e i vostri discendenti che verranno dopo di voi, e con tutti gli esseri animati che sono tra voi: uccelli, armenti e tutte le bestie che sono con voi e sono usciti dall’arca, e con ogni specie di animali terrestri. Stabilisco la mia alleanza con voi, in nessun modo la carne sarà più distrutta dalle acque del diluvio, né ci sarà un diluvio a sconvolgere la terra. Poi Dio disse: Questo sarà il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per le generazioni future. Io pongo il mio arco nelle nubi e servirà di segno del patto fra me e la terra. Quando accumulerò le nubi sopra la terra e si vedrà l’arcobaleno nelle nubi, allora io mi ricorderò del patto fra me e voi e tutti gli esseri viventi di ogni specie, e le acque non diventeranno più un diluvio per distruggere ogni carne. Quando l’arco sarà nelle nubi, io lo vedrò e mi ricorderò del patto perpetuo fra Dio e ogni essere vivente, di qualunque specie, che è sulla terra. E Dio disse a Noè: Questo è il segno del patto che stabilisco fra me e ogni carne che è sulla terra»): Genesi, 9, 8-17.
6 «Dum haec autem loquuntur Iesus stetit in medio eorum et dicit eis: Pax vobis ego sum, nolite timere. Conturbati vero et conterriti existimabant se spiritum videre. Et dixit eis: Quid turbati estis et cogitationes ascendunt in corda vestra? Videte manus meas et pedes, quia ipse ego sum. Palpate et videte, quia spiritus carnem et ossa non habet sicut me videtis habere. Et cum hoc dixisset ostendit eis manus et pedes»: Luca 24, 36-40; «… nisi videro in manibus eius figuram clavorum et mittam digitum meum in locum clavorum et mittam manum meam in latus eius non credam»: Giovanni, 20, 25.
7 «Vos autem estis qui permansistis mecum in temptationibus meis, et ego dispono vobis, sicut disposuit mihi Pater meus regnum, ut edatis et bibatis super mensam meam in regno et sedeatis super thronos iudicantes duodecim tribus Israhel»: Luca, 22, 28-30.
8 «Cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua et omnes angeli cum eo, tunc sedebit super sedem maiestatis suae et congregabuntur ante eum omnes gentes et separabit eos ab invicem sicut pastor segregat oves ab hedis et statuet oves quidem a dextris suis hedos autem a sinistris. Tunc dicet rex his qui a dextris eius erunt: Venite benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi. Esurivi enim et dedistis mihi manducare, sitivi et dedistis mihi bibere, hospes eram et collexistis me, nudus et operuistis me, infirmus et visitastis me, in carcere eram et venistis ad me. Tunc respondebunt ei iusti dicentes: Domine, quando te vidimus esurientem et pavimus sitientem et dedimus tibi potum? Quando autem te vidimus hospitem et colleximus te aut nudum et cooperuimus? Aut quando te vidimus infirmum aut in carcere et venimus ad te? Et respondens rex dicet: Illis amen dico vobis quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis mihi fecistis. Tunc dicet et his qui a sinistris erunt: Discedite a me maledirti in ignem aeternum qui paratus est diabolo et angelis eius. Esurivi enim et non dedistis mihi manducare; sitivi et non dedistis mihi potum; hospes eram et non collexistis me, nudus et non operuistis me, infirmus et in carcere et non visitastis me. Tunc respondebunt et ipsi dicentes: Domine, quando te vidimus esurientem aut sitientem aut hospitem aut nudum aut infirmum vel in carcere et non ministravimus tibi? Tunc respondebit illis dicens: Amen, dico vobis quamdiu non fecistis uni de minoribus his nec mihi fecistis. Et ibunt hii in supplicium aeternum, iusti autem in vitam aeternam» («Quando verrà il Figlio dell’Uomo nella sua maestà con tutti gli angeli, si assiderà sul trono della sua gloria: e tutte le nazioni saranno radunate davanti a lui, ma egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri; e metterà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi sin dalla creazione del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi albergaste; ero nudo e mi rivestiste; infermo e mi visitaste; carcerato e veniste a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti vedemmo affamato e ti demmo ristoro; assetato e ti demmo da bere? Quando ti vedemmo pellegrino e ti alloggiammo, o nudo e ti vestimmo? Quando ti vedemmo infermo o carcerato e siam venuti a visitarti? E il re risponderà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto questo a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me. Infine dirà anche a quelli che saranno alla sua sinistra: Andate lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli angeli suoi. Perché ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi albergaste; nudo e non mi rivestiste; infermo e carcerato e non mi visitaste. Allora anche questi gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato, o assetato, o pellegrino, o nudo, o infermo, o carcerato, e non t’abbiamo assistito? Ma egli risponderà loro: In verità vi dico: ogni volta che non lo avete fatto ad uno di questi più piccoli, non l’avete fatto a me. E costoro andranno all’eterno supplizio, i giusti invece alla vita eterna»): Matteo, 25, 31-46.
9 «Et mittet angelos suos cum tuba et voce magna et congregabunt electos eius a quattuor ventis a summis caelorum usque ad terminos eorum»: Matteo, 24, 31; «Et tunc mittet angelos suos et congregabit electos suos a quattuor ventis a summo terrae usque ad summum caeli»: Marco, 13,27.
10 Cfr. I Corinzi, 15,51-52: «Ecce, mysterium vobis dico, omnes quidem resurgemus, sed non omnes inmutabimur. In momento, in ictu oculi, in novissima tuba canet enim et mortui resurgent incorrupti et nos inmutabimur» («Ecco vi svelo un mistero: noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati, in un attimo, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Squillerà, infatti, la tromba e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati»).
11 Male, Le origini del gotico cit., p. 362. La resurrezione nel giorno del Giudizio di uomini e donne con i corpi dell’età di trent’anni viene testimoniata da Onorio Augustodunense (Speculum Ecclesiale, in Migne, Patrologia Latina [d’ora in avanti citata come PL], CLXXII, col. 1085): «Resurgent autem omnes mortui ea aetate et mensura qua Christus resurrexit, scilicet XXX annorum». L’età perfetta, ovvero i trent’anni attribuiti a Cristo, deriva invece da un passo di Agostino (Cantra Faustum, XII, 14; PL, XLII, col. 262) che associa l’età di Gesù ai trenta cubiti di altezza dell’Arca di Noè: «Quod eius altitudo triginta cubitis surgit, quem numerum decies habet in trecentis cubitis longitudo: quia Christus est altitudo nostra, qui triginta annorum aetatem gerens doctrinam evangelicam consecravit…».
12 «Et Dominus in aeternum permanet / Paravit in iudicio thronum suum / Et ipse iudicabitorbem terrae in aequitate / Iudicabit populos in iustitia»; Salmi, 9, 8-9.
13 «Et conversus sum ut viderem vocem quae loquebatur mecum et conversus vidi septem candelabra aurea et in medio septem candelabrorum similem Filio hominis vestitum podere et praecinctum ad mamillas zonam auream»: Apocalisse, 1, 12-13.
14 «Et cum aperuisset quintum sigillum vidi subtus altare animas interfectorum propter verbum Dei et propter testimonium quod habebant, et clamabant voce magna dicentes: Usquequo Domine sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de his qui habitant in tera?»: Apocalisse, 6, 9-10.
15 Cfr. Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, ed. italiana a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995, pp. 75-79.
16 Ancora oggi, nella liturgia del 28 dicembre, giorno in cui il calendario ricorda i santi Innocenti, l’antifona d’ingresso recita: «I santi Innocenti furono uccisi per Cristo, e in cielo lo seguono, Agnello senza macchia, cantando sempre: Gloria a te, o Signore».
17 «Et datae sunt illis singulae stolae albae et dictum est illis ut requiescerunt tempus adhuc modicum donec impleantur conservi eorum et fratres eorum qui interficiendi sunt sicut et illi»: Apocalisse, 6, 11.
18 Di quest’ultimo non è più leggibile il nome, ma in base alla tradizione iconografica si può con certezza affermare la sua identità. L’immagine è un richiamo ai passi evangelici di Matteo (22, 31-32): «De resurrectione autem mortuorum non legistis quod dictum est a Deo dicente vobis? Ego sum Deus Abraham et Deus Isaac et Deus Iacob, non est Deus mortuorum sed viventium»
(«Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto ciò che Dio vi disse? Io sono il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe, non è il Dio dei morti, ma dei vivi»); Marco (12, 26- 27): «De mortuis autem quod resurgant non legistis in libro Mosi super rubum quomodo dixerit illi Deus inquiens: Ego sum Deus Abraham et Deus Isaac et Deus Iacob? Non est deus mortuorum sed vivorum» («Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto nel libro di Mosè, nell’episodio del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe? Non è il Dio dei morti, ma dei vivi»); Luca (13, 28): «Ibi erit fletus et stridor dentium, cum videritis Abraham et Isaac et Iacob et omnes prophetas in regno Dei, vos autem expelli foras» («Là vi sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, e voi cacciati fuori»),
19 «Factum est autem ut moreretur mendicus et portaretur ab angelis in sinum Abrahae»: Luca, 16, 22.
20 Cfr. PL, XXXV, col. 1350.
21 Cfr. Summa Theologiae, q. 69, a. 4.
22 A. Simon, Abramo, in Enciclopedia delVArte Medievale, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2000, voi. I, pp. 58-60; J. Baschet, Anima, ivi, pp. 804-815.
23 «Vidit igitur mulier quod bonum esset lignum ad vescendum et pulchrum oculis aspectuque delectabile et tulit de fructu illius et comedit deditque viro suo qui comedit. Et aperti sunt oculi amborum cumque cognovissent esse se nudos consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata» («La donna intanto aveva osservato che l’albero era buono a mangiarsi, piacevole all’occhio e desiderabile per acquistare il sapere. Colse quindi il frutto, ne mangiò e ne dette anche a suo marito che stava con lei ed egli ne mangiò. Si aprirono allora gli occhi di tutt’e due e s’avvidero che erano nudi; cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture»): Genesi, 3, 6-7.
24 «Vincenti dabo edere de Ugno vitae quod est in Paradiso Dei mei»: Apocalisse, 2, 7.
25 C. Frugoni, Alberi (in paradiso voluptatis), in Cambiente vegetale nell’Alto Medioevo. Spoleto, 30 marzo-5 aprile 1989, XXXVII settimana di studio del Centro Italiano di Studi sullAlto Medioevo, CISAM, Spoleto 1990, p. 730. «Il significato positivo della palma […] è rafforzato anche da un racconto contenuto nel Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo (cap. XX); durante la fuga in Egitto questo albero si china verso Maria offrendo i suoi frutti a lei e alla sacra famiglia esausta; il piccolo Gesù ordina poi all’albero di crescere anche nel paradiso celeste, per essere a disposizione dei santi»: ivi, p. 727 (cfr. 7 Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969, pp. 86-87).
26 Relativamente alle contrapposizioni tra Arbor mala e Arbor bona scrive Chiara Frugoni: «[Nel Genesi] viene precisato che al centro dell’Eden sono l’Albero della Vita e l’Albero della scienza. La duplice proprietà di quest’ultimo introduce la nozione dell’esistenza del male, che si incunea nella vita appena iniziata, nell’opera perfetta di Dio. La flora del paradiso terrestre rispetto alla fauna e agli altri elementi, tutti neutri nella loro bontà, suggerisce immediatamente all’esegesi cristiana una interpretazione etico-simbolica; costringe e limita la riflessione entro un rapporto binario, nella rigida contrapposizione dell’Arbor bona e dell’Arbor mala, dell’Albero verde e dell’Albero secco, Chiesa e Sinagoga, Albero delle virtù, Albero dei vizi […]»: Frugoni, Alberi cit., pp. 730-731
27 «Iam enim securis ad radicem arborum posita est omnis ergo arbor quae non facit fructum bonum exciditur et in ignem mittitur»: Matteo, 3, 10.
28 La Visio Pauli, apocalisse giudaico-cristiana del III secolo, rappresenta il punto di partenza, insieme alla Apocalisse di Pietro (II secolo), per l’elaborazione del modello infernale nella tradizione cristiana. L’interpretazione del passo dello stesso san Paolo (II Corinzi, 12,2-4), in cui dichiara di essere stato rapito al terzo cielo, diede luogo a una diffusa letteratura sul viaggio dell’apostolo nell’oltretomba. Celebre è la testimonianza di Dante (Inferno, II, 28-30), che accenna al viaggio dell’apostolo nell’aldilà. Sulla fortunata diffusione di questo testo si veda T. Silverstein, Visiones et revelaciones Sancti Pauli: una nuova tradizione di testi latini nel Medio Evo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1974.
29 «Adhuc ea loquente vidi tres venientes a longe pulcros valde speciae Christi, et imagines eorum fulgentes, angelos ipsorum, et interrogavi: Qui sunt hii, domine? Et dixit mihi: Nescis eos? Et dixi: Nescio, domine. Et respondit: Hii sunt patres populi, Abraham, Hysaac, et Iacob. Et venientes iuxta salutaverunt me et dixerunt: Ave, Paule, dilectissime dei et hominum; beatus est qui vim sustinet propter dominum. Et respondit mihi Abraham dixit: Hic est filius meus Hysaac, et Iacob dilectissimus meus, et cognovimus dominum et secuti sumus eum; beati omnes qui crediderunt verbo tuo, ut possint hereditare regnum dei per laborem, abrenunciacione et sanctificatione et humilitate et caritate et mansuetudine et recta fide ad dominum; et nos quoque habuimus devocionem ad dominum quem tu praedicas testamento ut omnes anime credencium ei adsistamus et ministremus sicut patres ministrant filiis suis»: Visio Pauli, in M.R. James, Apocrypha Anecdota. A Collection of Thirteen Apocryphal Books and Pragments, Cambridge University Press, Cambridge 1893, p. 38. Il brano citato si riferisce alla visione del paradiso. La traduzione italiana è tratta da Apocalissi Apocrife, a cura di A.M. Di Nola, Tea, Milano 1993, pp. 87-88.
30 «Beati qui lavant stolas suas ut sit potestas eorum in Ugno vitae et per portas intrent in civitatem»: Apocalisse, 22, 14.
31 San Leonardo aveva ottenuto dall’autorità laica il privilegio di chiedere la liberazione dei prigionieri, e la sua fama fu così grande che i carcerati, ovunque lo invocassero, vedevano le loro catene rompersi miracolosamente. Per questo motivo è raffigurato con delle catene e ceppi in mano. Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. VII, Istituto Giovanni XXIII, Roma 1966, coll. 1198-1208.
32 Giuseppe Scavizzi, nell’articolo Nuovi affreschi del Quattrocento campano (in «Bollettino d’Arte» [1962], pp. 196-202), pubblicato poco tempo dopo la scoperta dell’affresco, riconosceva nella schiera dei santi Caterina, Lorenzo o Leonardo, san Francesco o Domenico, san Giacomo e san Benedetto. Ma il secondo santo raffigurato è senza dubbio Leonardo, ha la catena ben visibile, non una graticola. Il terzo santo raffigurato non è Francesco (non ha le stimmate), e nemmeno Domenico, poiché l’abito domenicano prevede la tunica e lo scapolare con cappuccio bianchi e mantello con cappuccio nero, mentre il santo dell’affresco indossa il saio marrone, come quello francescano; esso inoltre tiene in mano un libro, attributo che caratterizza Antonio da Padova, francescano.
33 Ivi, p. 196.
34 E Navarro, Ferrante Maglione, Alvaro Pirez d’Evora ed alcuni aspetti della pittura tardogotica a Napoli e in Campania, in «Bollettino d’Arte», n. 78 (1993), p. 75, nota 38.
35 L’ipotesi è riportata da Francesco Abbate in Id., I. Di Resta, he città nella storia d’Italia. Sant’Agata dei Goti, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 48, e dallo stesso autore in Affreschi tardogotici a Maddaloni, in I segreti del Medioevo. Gli affreschi di Maddaloni, a cura di M.R. Rienzo, Maddaloni 1992, p. 9. In entrambi i saggi, a causa di un refuso, si parla di papa Urbano IV (1261-1264) invece che di papa Urbano VI.
36 Cfr. Abbate, Affreschi tardogotici a Maddaloni, cit., p. 9.
37 La parola «Urbanus» è cambiata in «Julianus» con l’apposizione iniziale della J, mantiene le lettere u, a, n e il segno abbreviativo us, mentre le lettere l ed i vengono sovrapposte, con opportune cancellazioni, surei. Alla parola papa viene cancellata la p iniziale, la a finale viene cambiata in o a cui segue ex novo «stata» («apostata»). Lo studio della didascalia è stato effettuato grazie alla documentazione fotografica precedente il restauro dell’affresco, concessa gentilmente dal parroco della chiesa Franco Iannotta.
38 Dante, Inferno, XXVIII, vv. 22-63.
39 Cfr. M. Jacoviello, Un papa napoletano nello Scisma d’Occidente: Bartolomeo Frignano (1378-1389), in «Campania Sacra», 21 (1990), pp. 72-95; S. Fodale, La politica napoletana di Urbano VI, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1973.
40 Seguo sempre M. Jacoviello e S. Fodale (cfr. nota 39).
41 Cfr. nota 39.
42 Si vedano sempre M. Jacoviello e S. Fodale (cfr. nota 39).
43 Cfr. G. Ortalli, «… pingantur in Palatio…». La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Jouvence, Roma 1979.
44 Cfr. J. Baschet, Lieu sacré, lieu d’images. Les fresques de Bominaco (Abruzzes, 1263). Thèmes, parcours, fonctions, Ecole Francaise de Rome, Rome 1991, p. 74. Il ruolo che l’arcangelo Michele ricopre è il medesimo del dio romano Mercurio, che guidava le anime dei defunti agli inferi. San Michele fu identificato come santo psicopompo (accompagnatore di anime) nei primi secoli del cristianesimo, quando la Chiesa propagandò il suo culto tra i Gallo-romani devoti a Mercurio; il culto dell’arcangelo prese il sopravvento su quello del dio pagano e la figura di Michele assunse gli attributi che erano stati propri di Mercurio: Male, Le origini del gotico cit., p. 363.
45 Giordano da Pisa, Prediche recitate in Firenze dal 1303 al 1306 ed ora per la prima volta pubblicate, a cura di C. Moreni, Magheri, Firenze 1831, vol. II, Predica LXV, pp. 268-270.
46 Dei vizi sono visibili solo le iscrizioni relative alla terza figura (gula) e alla settima [acidia) e parzialmente alla prima (…rb… per superbia).
47 La rappresentazione delle virtù nell’atto di schiacciare i vizi capitali fu tipica dell’arte romanica francese. Molto simile alla psicomachia del Giudizio Universale della chiesa della SS. Annunziata è la raffigurazione scultorea dello stesso tema presente sull’esterno della cattedrale di Strasburgo (c. 1280).
48 La teorizzazione delle quattro virtù cardinali appartiene al mondo antico greco e romano: sviluppata da Platone (nella Repubblica) e da Cicerone (De officiis), fu trasmessa al Medioevo attraverso sant’Ambrogio (De officiis ministrorum, I, 50; PL, XVI, col. 106). Le tre virtù teologali sono invece una creazione cristiana: san Paolo indica la fede, la speranza e la carità quali virtù specificamente cristiane (I Tessalonicesi, 1, 3; I Corinzi, 22, 13). Proprio la differenza di origine dei due gruppi portò spesso alla loro rappresentazione iconografica separata. Solo a partire dal XII secolo vennero a costituire un settenario di virtù. Ruolo determinante per lo sviluppo del tema fu la Psychomachia di Prudenzio (V secolo), poema allegorico in cui sono descritte le battaglie tra virtù e vizi, tutti personificati da figure femminili. Cfr. A. Katzenellenbogen, Allegories of the Virtutes and Vices in Mediaeval Art. From Early Christian Times to the Thirteenth Century, The Warburg Institute, London 1939, rist. Kraus, Nendeln 1968, in particolare pp. 10, 16-17, 38-43.
49 La didascalia è errata: sacrilegius sta per sacrilegus.
50 II falso testimone potrebbe – per il contrappasso che associa al peccato la punizione mediante l’organo che ha partecipato all’azione peccaminosa – essere anche appeso per la lingua, ma in questo caso si confonderebbe con il bestemmiatore a cui è toccata questa sorte.
51 Cito il testo in volgare tradito dal manoscritto Magliabechiano CI. XXXVIII, 127 (XIV secolo) pubblicato da P. Villari, Antiche leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia, in «Annali delle università toscane», 8 (1886), pp. 77-80, citazione a p. 78.
52 Cfr. Ortalli, «…pingantur in Palatio…» cit. L’analogia tra pittura infamante e rappresentazione dei condannati alle pene eterne è sottolineata da Chiara Frugoni: «Il potere delle immagini non si limitava all’ambito della fede: dalla seconda metà del Duecento, in caso di contumacia, i traditori e i falsari cominciarono ad essere dipinti bruciati, più spesso impiccati a testa in giù, anche sui muri dei più importanti edifici pubblici comunali, con il corredo di epigrafi che indicavano il nome del reo e lo coprivano di insulti. Una punizione particolarmente efficace la pittura infamante, perché coinvolgeva nella vergogna e nella riprovazione altrui tutte le persone con le quali il condannato per immagine aveva rapporti. E di nuovo a segnalare lo scambio continuo fra realtà, immagine dipinta, religiosa e laica, ricordo la sequenza degli impiccati, uomini e donne, alcuni a testa in giù, nell’Inferno della Cappella Scrovegni a Padova di Giotto, effigiati secondo la prassi della pittura infamante»: A. e C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 86-87.
53 Cfr. Apocalisse, 20, 1-2: «Et vidi angelum descendentem de caelo habentem clavem abyssi et catenam magnam in manu sua, et adprehendit draconem serpentem antiquum qui est diabolus et Satanas et ligavit eum per annos mille» («Poi vidi un angelo che scendeva dal cielo, tenendo in mano la chiave dell’abisso e una grande catena. Egli afferrò il dragone, l’antico serpente, che è il diavolo, Satana, e lo incatenò per mille anni»).
54 Proprio vicino ai piedi di Satana vi è una iscrizione illeggibile:…vane ene gad…; e sembrerebbe, ma l’affresco è molto rovinato, che lo stesso demone stia schiacciando sotto i propri artigli un altro dannato.
55 Le Visioni di santa Francesca Romana furono scritte in dialetto romanesco nel XV secolo dal prete Giovanni Mariotti, confessore di Francesca; il testo riporta le visioni dell’aldilà avute dalla santa (morta il 9 marzo 1440) nel corso della propria esistenza. Riporto in questa sede brani tratti dall’edizione di M. Pelaez, Visioni di santa Francesca Romana, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», XIV (1891), in particolare pp. 371-373.
56 Ivi, p. 380. La visione dell’inferno di santa Francesca Romana riporta anche l’immagine di un enorme Satana legato con catene infuocate, ma questa immagine, presente nel Giudizio di Sant’Agata de’ Goti, è assai diffusa nelle rappresentazioni dell’inferno medievali. Non si intende in questa sede ipotizzare una stretta relazione tra l’affresco della chiesa della SS. Annunziata e le Visioni della santa, quanto piuttosto segnalare due testimonianze di differente natura – una iconografica, l’altra letteraria – che ci hanno tramandato in diversa forma elementi identici dell’immaginario medievale.
57 II sodomita punito allo spiedo compare anche nel mosaico del Battistero di S. Giovanni a Firenze, a Bologna in S. Petronio, a Padova nella Cappella degli Scrovegni, a Pisa nel Camposanto, ed anche in questi casi non è indicata in modo specifico la sua colpa. Santa Francesca Romana nelle sue visioni dell’inferno giustificava così la pena dei sodomiti: «[…] vide nello profondo et terribile luoco dello inferno, lanime delli miseri nomini et femine collo peccato sodomitico,
et collo peccato contra natura: le quale anime avevano grannissimo cruciato, et in quello muodo et forma che avevano operato tale scelerato vitio, in quello medesmo muodo li demonii operavano con esse anime de homini et de femine. Et puoi li demonii pigliavano le diete misere anime, et con pali de ferro ad muodo de granni spiti infocati, spitavano et sfonnavano le dolorose anime incomensando dalla parte de socto, et regessivano li dicti pali alla bocha de ciasche anima…»: Visioni di santa Francesca Romana, cit., pp. 375-376.
58 Le pene purificatrici devono avere luogo nel tempo che intercorre tra il giudizio particolare (dopo la morte) e quello finale, dopo il quale non ci sarà che inferno o paradiso (Agostino, De civitate Dei, XXI, 13; PL, XLI, col. 728). Per san Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, suppl., q. 70 ter e 71) la misura e la durata della pena sono in proporzione al peccato, ma possono essere mitigate dai suffragi della Chiesa. La pena maggiore per le anime del purgatorio è il rinvio della visione di Dio.
59 «Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, / la donna ch’io avea trovata sola / sopra mevidi, e dicea: – Tiemmi, tiemmi! / Tratto m’avea nel fiume infin la gola, / e tirandosi me dietro sengiva / sovresso l’acqua lieve come scola. / Quando fui presso a la beata riva / Asperges me sì dolcemente udissi, / che noi so rimembrar, non ch’io lo scriva. / La bella donna ne le braccia aprissi; / abbracciommi la testa e mi sommerse / ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi»: Purgatorio, XXXII, w. 91-102.
60 La tradizione prevede due settori per il limbo: il limbo dei bambini non battezzati e morti macchiati del peccato originale, e il limbo dei Padri, quest’ultimo chiuso dopo la discesa di Cristo agli inferi e la liberazione di tutti coloro che vi risiedevano.
61 II tema è rappresentato nel santuario della Madonna dei Bisognosi a Pereto (L’Aquila), nella chiesa di S. Maria in Foro Claudio a Ventaroli (Caserta), nella chiesa di S. Francesco a Leonessa (Rieti), nella cattedrale di Sermoneta (Latina), e in frammenti nella chiesa di S. Maria Assunta ad Assergi (L’Aquila). Tutti gli affreschi risalgono al XV secolo. Sull’affresco di Pereto si vedano Baschet, Les Justices cit., pp. 380-383, 660-661; A. Calvani, Santuario della Madonna dei Bisognosi, Roma 1980. Per gli affreschi di Leonessa, Pereto e Sermoneta cfr. J. Baschet, I sette peccati capitali e le loro punizioni nell’iconografia medievale, in C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000, pp. 225-260, in particolare pp. 246-247. Sui cicli abruzzesi si vedano: E. Carli, Affreschi benedettini del secolo XIII in Abruzzo, in «Le arti», 1 (1938), pp. 442-463; G. Rasetti, Il Giudizio universale in arte e la pittura medievale abruzzese, Tempo nostro, Pescara 1935.
62 Giordano da Pisa, Prediche inedite (dal ms. Laurenziano. Acquisti e Doni 290), a cura di C. Iannella, ETS, Pisa 1997, pp. 52-53.
63 Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, Editrice fiorentina, Pistoia 1934, voi. I, p. 98.
64 Ibid.
65 Riporto gli indici delle Rubriche del Confessionale, che si definisce come un manuale, un prontuario per i confessori meno esperti («Simpliciores et minus expertos confessores de modo audiendi confessiones informare cupiens. Aliquid in hoc tractatu ad horum instructionem sub compendio posui»): «Rubrice prime partis: I De admnotionibus generalibus; II De luxuria; III De avaritia; IV De restitutionibus faciendis; V De superbia; VI De accidia; VII De invidia; VIII De ira; IX De gula; X De quibusdam peccatis lingue et peccato de mendaciis; XI De giuramento et periuro; XII De murmure et detractione susurratione et derisione; XIII De sortilegiis; XIIII De scandalo; XV De votorum violatione. […] Rubrice secunde partis: I Ad episcopos et alios prelatos; II Ad clericos et beneficiatos; III Ad sacerdotes parrochiales et eorum vicarios et audientes confessiones; IV Ad religiosos et claustrales; V Ad iudices; VI Ad advocatos et procuratores; VII Ad medicos; VIII Ad doctores et magistros; IX Ad principes et alios nobiles; X Ad coniugatos; XI Ad mercatores et burgenses; XII Ad artifices et mechanicos; XIII Ad rusticos et agricolas; XIV Ad laboratores» (i brani qui citati sono traditi dal manoscritto della Biblioteca Antoniana di Padova, Cod. 367, scaff. XVII, c. 303r, e in parte pubblicati da J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Einaudi, Torino 1977, p. 149). Per la tradizione manoscritta e a stampa di questo trattato si veda T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, vol. II, ad S. Sabinae Ecclesiam [poi Istituto storico domenicano], Romae 1975, pp. 433-436; voi. IV, Istituto storico domenicano, Roma 1993, pp. 151-152. Per quanto riguarda gli studi sui manuali per confessori si vedano R. Rusconi, Ordinate confiteri. La confessione dei peccati nelle Summae de Casibus e nei manuali per confessori (metà XII inizio XIV secolo), in L’aveu: antiquité et moyen àge, Collection de l’École Francaise de Rome, Rome 1986, pp. 297- 313; P Michaud-Quantin, Sommes de casuistique et manuels de confession au Moyen Age, Nauwelaerts, Louvain-Montreal 1962; L. Boyle, The Summa Confessorum of ]ohn of Freiburg and the Popularization of the Moral Teaching of Saint Thomas and Some of bis Contemporaries, in St. Thomas Aquinas, 1274-1974. Commemorative Studies, a cura di A. Maurer e E. Gilson, Pontificai Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1974, voi. I, pp. 245-268.
66 Scrive Jacques Le Goff che «I manuali dei confessori sono dei buoni testimoni della presa di coscienza della professione da parte di coloro che la esercitano, poiché riflettono la pressione del loro ambiente sulla Chiesa, e sono stati, di ritorno, uno dei principali mezzi di formazione della coscienza professionale degli uomini del Medioevo, a partire dal secolo XIII»: Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante cit., p. 140.
67 Si veda: Pane e potere. Istituzioni e società in Italia dal Medioevo all’Età moderna, a cura di V Franco, A. Lanconelli, M.A. Quesada, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1991.
68 «Anche vide essa beata ancilla de Cristo le dolorose anime delli iudici, li quali dierono false sententie: erano messe in uno tino grande de oro & de argento liquefacto. Et li demonii con certi incini infocati acerbissimi, colli quali cacciavano le meschine anime, et gittavanolle ad altri demonii sopre de ciò deputati in forma de leoni, & da essi erano crudelissimamente laniate, tucte tenendo le mitre infocate nelli loro capi»: Visioni di santa Francesca Romana, cit., pp. 388-389.
69 La malattia era vista come una metafora del peccato ed il malato, prima di essere curato, doveva essere confessato, comunicato e solo dopo queste due operazioni poteva essere accudito dal personale dell’ospedale; si cercava in sostanza di curare la salvezza dell’anima più che la salute dei corpi. Cfr. J. Agrimi, C. Crisciani, Malato, medico e medicina nel Medioevo, Loescher, Torino 1980, pp. 207-208.
70 «… vide le misere anime delli medici, le quale stavano nello luoco de socto [nella parte più profonda dell’inferno], & tenevano li piedi in alto et li loro capi a basso. & li demonii con certi grappi le stracciavano duramente, et stavano infra certe piaste de fierro infocate dalle quale avevano grande tormento; et tale pena avevano per li libri che avevano usati, et per lo homicidio commesso, che per salvare la matre, non curano de occidere la creatura ne l’utero materno. Et anche
delli homicidii facti malitiosamente, anche per la transgressione ecclesiastica, che medicaro li infirmi prima che fussino confessati & reconciliati. Ma, per lo peccato della ignorantia, li erano cacciati li occhi dalli demonii, & per la vana speransa che abero de sanare li infermi, et però non li fecero comunicare, né confessare, li era cacciato lo core, & era dato ad certi demonii in forma de cani dalli quali era molto stracciato. Per lo peccato pomposo dello vestire erano copierti dalla fiamma dello fuoco non lucente ma tenebroso, come è dicto nello principio dello presente tractato. Ma per lo peccato della cupidità li era messo nelle loro gole oro con argento liquefacto, sempre blasfemando, & ciascheuna delle diete misere anime aveva dallo demonio tale improperio: Anima dolente che si stata così accecata, lo tio studio fetente, per lo quale te si avenenata, ate facta ingannare alla toa sensualità, or sta in questi tormenti, & non tenne lamentare»: Visioni di santa Francesca Romana, cit., p. 396.
71 «Vide anche essa beata ancilla de Cristo le poverecte anime delli speciali, le quale avevano pena per la ignorantia & per la cupidità, corno è sopra dicto delli medici. Anche erano messe in uno tino pieno de molta immunditia, la quale pena avevano per le false medicine date & non bene facte. Et li demonii con certi grappi le cacciavano dello dicto tino con grande detratio; anche certi demonii li cacciavano lo core, & puoi lo davano ad altri demonii in forma de cani arrabiati, & da essi era stracciato. & ciascheuna delle diete meschine anime aveva dallo demonio tale improperio: O anima maledecta che te si lassata ingannare, che non ai auto abedimento nello tuo molto malefare, pati pena & tormento nello fuoco ad cruciare»: ivi, p. 397.
72 «Anche vide essa beata Francesca dieta le misere anime delli tavernari, le quale stavano nello luoco de socto; & erano messe in tre tini, delli quali uno ne era pieno de giaccio, l’altro de vino ardente, & l’altro pieno de aceto & de altre cose. Et per lo peccato de mectere l’acqua nello vino era messa ciascheuna delle diete misere anime nello tino dello giaccio […] et molto tormentata li era messo dalli demonii oro con argento liquefacto, la quale pena aveva per cupidità, et erali dicto tale improperio: O anima sconsolata che te si lassata desertare, per la toa golisitate te si facta ingannare, colli demonii te stai con pene & tormenti che non mancano mai»: ivi, p. 397.
73 «Vide anche essa beata Francesca le misere anime delli macellari, le quale avevano grandi tormenti, ma in particularità era posta la misera anima nella belancia, da una parte tenendo alla gola molti uncini ferrei infocati, pendendo essa meschina anima nelli incini; & dall’altra parte della belancia era grande peso, ad muodo de macera: & tale pena avea per li peccati generali che commise. Anche li demonii li davano per la faccia ad muodo de trippe fracide, piene de molte miserie & pucce & de orrebile abominatione. La quale pena li era data perché vendeva la carne trista per bona, cioè lo peco per lo castrone & simili fraudationi. Anche li demonii la incicchiavano [tagliavano] sopre la bancha ad muodo de carne per fare le salcicce, et tale pena li era data per l’altri peccati che commise in tale arte dello maciello, & aveva dallo demonio tale improperio: Anima che si trista, tanto ai sequitato lo mundo, non tenne si retracta, lo honore de Dio ai desfacto,
sitte aducta ad tale passo che non tenne puoi aiutare, ora pati pene & tormenti al presente & sempre mai»: ivi, p. 398.
74 Visio Thurkilli, relatore, ut videtur, Radulpho de Coggeshall, a cura di P.G. Schmidt, Teubner, Leipzig 1978, p. 28.
75 Ivi, pp. 22-27.
76 L’Anonimo del Codice bolognese 2751, in Imitazioni dantesche di quattrocentisti meridionali, a cura di A. Altamura e P. Basile, Società editrice napoletana, Napoli 1976, pp. 7-27.
77 Ricordo in proposito il pensiero di Bernardino da Siena che, predicando su «come debba ministrare iustizia chi ha offizio», individua tra i nemici della giustizia, che i prìncipi debbono sconfiggere, Afalsus iudex in consistono, ilfraudulentus mercator in foro, il mendax in artifitio: Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, 1427, a cura di C. Delcorno, Rusconi, Milano 1989, pp. 710, 716.
78 II tema della giustizia e dei suoi diversi esiti è stato tradotto anche in immagini, raffigurato su un capitello della torre della Ghirlandina, a Modena. In questo compaiono un giudice giusto, incoronato da un angelo; un giudice iniquo nell’atto di ricevere denaro da un ricco; un giudice tentato, fiancheggiato da un uomo che gli offre delle monete (l’iscrizione recita: Offert pecuniam per falsa sententia) e da un uomo povero – è scalzo – che si dispera (stringe il pugno sulla guancia) a causa del giudice corrotto: A. Barbero, C. Frugoni, Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 250-254.
79 A. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale, Jouvence, Roma 1987, pp. 53-54.
80 San Bernardino da Siena, ad esempio, accusava i notai di fare da sensali agli usurai: «[L’usuraio] agevolmente la guadagna; grande utilità multiplica ed è guadagno certano; guadagna con poca fatica; niente ve ne dura. Chi la dura? El notaio che fa el contratto usuraio; el sensale»: Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit., vol. I, p. 82.
81 Cfr. J. Le Goff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 41-58.
82 C. Rivals in II mulino, L’avventura del pane quotidiano, in «Storia e Dossier», n. 7 (1987),
pp. 47-49.
83 L. Chiappa Mauri, ivi, pp. 61-64.
84 C. Rivals, ivi, pp. 47-49.
85 Cfr. C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino 1999, p. 138, e ripreso anche da C. Rivals cit., nota 34.
86 Cfr. Pane e potere cit., pp. 31-33.
87 Cfr. H.C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 252-262.
88 Cfr. Visio Thurkilli cit., pp. 26-27.
89 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, cit., pp. 315-316.
90 L’Anonimo del Codice bolognese 2751, cit., p. 22.
91 Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit., pp. 79-80. Nel Vangelo di Matteo (21, 12-13) coloro che vengono cacciati dal tempio sono i mercanti ed i cambiavalute, accusati di essere ladri. In questa predica Bernardino da Siena identifica le due categorie professionali semplicemente come usurai.
92 Per la condanna del peccato di usura si veda Le Goff, La borsa e la vita cit., pp. 11-77.
93 La lunga chioma bionda è uno dei principali attributi della Maddalena; san Bernardino da Siena in più occasioni stigmatizza la capigliatura della donna come principale mezzo di istigazione al peccato: «[…] Primo peccato ch’ella commise si è ne’ fatti del mondo, cioè mostresi di piacere più al mondo che a Dio, e di parere più bella al mondo che a Dio […] modo di peccare si fu co’ capegli. Imperò ch’ell’aveva così bel capo e sempre avea che fare di stare a imbiondare, e di stare al sole a seccare: e nulla cosa di vanità non lassa di fare»: Bernardino da Siena, Le prediche volgari inedite. Virente 1424-1425 – Siena 1425, a cura del P Dionisio Pacetti O.F.M., Cantagalli, Siena 1935 [Quaresimale di Firenze, 1425], voi. II, pp. 352-353; «In che Maria Maddalena era peccatrice […] La prima cosa, collo imbrattare el volto. […] El secondo, colla bocca, in baciare, in cantare, in ragionare e parlare vanamente e disonestamente. El terzo, co’ capelli, tanto belli, che aggiugnevano infino a terra. La maggiore vanità che comunque abbi la donna sono e capelli. Adunque è maggior peccato. Ogni capello era una catena a tirare lei e l’altre allo inferno. Peccato grande!»: Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit., p. 144; lo stesso Bernardino spiega la metamorfosi della Maddalena dopo l’incontro con Cristo: «con molte lagrime, piangendo, cominciò a darsi per la casa, e ardere e capelli vani che forse si riteneva, e gittare via la biacca e gli altri imbratti e vanità, e piangendo tutti e peccati fatti dal primo dì infino all’ultimo…»: ivi, p. 148.